Pierfrancesco Azzi

Pierfrancesco Azzi

«Non esiste pedagogia senza antropologia. Come possiamo educare la persona se non sappiamo chi è la persona?»[1]

Per parlare delle sfide del nuovo umanesimo, soprattutto per noi che abbiamo come missione l’educazione, non si può prescindere  da un ragionamento di consapevolezza sulla realtà in cui noi ci troviamo ad operare. Ed indubbiamente questa realtà ha un nome chiaro e preciso: postmodernità.

Capire la postmodernità non è cosa semplice. Cercherò quindi di portare alla luce alcuni contributi per permetterci poi di ragionare meglio sulle sfide che questo comporta e quindi sugli impatti, più o meno chiari, che questo nuova visione antropologica porta nel nostro ambito educativo.

Teniamo infatti presente che accade piuttosto spesso (e sempre più frequentemente) che chi si occupa di educazione si adagi sul compito di adeguare i mezzi agli obiettivi, pensando che essere “professionisti” dell’educazione (= possedere delle competenze in tale ambito), basti. Purtroppo però l’educazione (e lo sappiamo bene) non è una questione così tecnica (= la mera applicazione di un metodo non è di per se sufficiente a fare educazione). E’ compito infatti di ogni educatore quello di capire innanzitutto la realtà per trovare quindi i mezzi migliori per affrontarla. Dalla realtà emergono chiari degli obiettivi che si possono concretizzare e quindi poi viene applicata la tecnica che viene considerata come quella più efficace. Ricordiamo che una metodologia va intrisa di contenuti che devono sapersi adattare costantemente agli obiettivi e alla realtà di riferimento in cui opera.

C’è anche un’ulteriore complicazione: l’educazione non è una competenza che si possa imparare in maniera nozionistica ma che prevede di sperimentarsi all’interno di una relazione. Le relazioni umane sono complesse, difficili a volte. E di fronte alla relazione – con tutte le sue sfaccettature, emozioni, sentimenti e contenuti  abbiamo il dovere (se vogliamo essere educatori) di starci per avere qualche chance di successo. Non dobbiamo mai “interrompere la comunicazione”[2] .

Questo processo di relazione potrebbe certamente prescindere dalla conoscenza della cornice di riferimento in cui siamo inseriti, ma sarebbe oltremodo difficoltoso riuscire a delineare e definire obiettivi, contenuti e dinamiche se non lo facciamo.

1.         Postmodernità – la cornice di riferimento

Prima dell’era postmoderna c’erano sempre stati dei chiari punti fermi che, nella loro dinamica, si ripetevano nei corsi e ricorsi della storia.

Alla base dei grandi cambiamenti c’erano delle grandi ideologie che erano l’ispirazione e la guida del cambiamento dell’uomo. Ad esempio ricordiamo la svolta democratica della Polis Greca o le possibilità infinite dell’uomo illuminista/romantico alla base dell’età moderna.

Le grandi ideologie hanno definito in tutta la storia “recente” in maniera piuttosto evidente una chiara visione dell’uomo, sia sul piano sociologico che su quello antropologico, chiaramente ed indissolubilmente legata a quel determinato contesto culturale.

Stando nell’esempio dell’era illuminista/romantica non si può pensare che sia un caso che la scienza e la tecnica abbiano cominciato a fiorire, che l’uomo abbia elevato le sue condizioni attraverso l’invenzione e la diffusione di mezzi nuovi (sanitari, tecnologici, culturali) capaci di elevarne la sua condizione. Non è stato un caso se sono stati definiti modelli macro e micro economici, se sono state fatte grandi scoperte scientifiche, se sono state create le prime realtà industriali, se è nata la psicanalisi per guardare nel grande “abisso” che ogni uomo porta dentro: l’uomo aveva possibilità infinite e quindi era spinto ad andare oltre il noto per migliorare la sua condizione.

Non da ultimo, la grande ideologia garantiva la possibilità di dare delle risposte di senso alla vita dell’uomo e delle risposte sinergiche della società verso un fine (=bene) comune identificati entrambi dall’ideologia stessa, creando un sentimento sociale di fiducia e di sicurezza.

Nell’epoca postmoderna questo non avviene, non c’è una grande ideologia evidente, comune e diffusa, che guida l’uomo nel suo progredire e nel suo vivere. E’ la prima volta in cui questo accade e questo ha provocato un era che si sta dimostrando particolare per tutta una serie di conseguenze e significati che mai si erano presentati prima. Questa mancanza di grandi ideali, di grandi idee capaci di guidare l’uomo nella sua evoluzione (svolta anti-platonica) sta creando una serie di conseguenze con cui ci dobbiamo confrontare prima come uomini e poi come educatori.

«[…] Per essere al servizio dell’uomo, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi […] Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. […] L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, si ripercuotono sull’uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d’agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale […] Come accade in ogni crisi di crescita, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà. […] (L’uomo) Si sforza di penetrare nel più intimo del suo essere, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre man mano più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto sorgono nuove forme di schiavitù sociale e psichica.[…] E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; […] aumenta lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi. […] Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Questo sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta»[3].

La questione nella sua complessità è evidentemente urgente perché se da un lato è vero che l’uomo ha perso i suoi riferimenti principali dall’altro resta vivo il problema dell’identità e di dare risposta alle domande di senso che l’uomo continua a porsi e che necessitano di essere risolte. In questo dinamismo l’uomo post-moderno deve trovare nuove vie per soddisfare i suoi bisogni primari e secondari,  comprensive di nuove dinamiche e nuove sfide. Ed è dunque in questo contesto che si inserisce la necessità di trovare un nuovo umanesimo capace di accogliere l’uomo post-moderno e di aiutarlo a trovare una via di orientamento capace di garantire sicurezza, fiducia e felicità.

Ma quali sono, sinteticamente queste “contrastanti condizioni” che disorientano l’uomo di oggi?

 1.1     Presentismo, incertezza e frammento

 La svolta anti-platonica a cui stiamo assistendo porta alla grande conseguenza che quanto era stato importante nel passato non venga più visto in un’ottica progressiva ma solo come una fase, conclusa, della storia (depauperazione del passato).

Ciò che è successo, non mi appartiene più e soprattutto non serve, in linea di massima, a farmi orientare meglio nelle turbolenze del presente. Il passato era guidato da grandi ideologie, che pur avendo (avuto) un valore indiscutibile, vedono confinato il loro vigore nell’epoca in cui si sono sviluppate.

Ma quello che ha più (e che continua a destabilizzare di più) l’uomo di oggi è il “cambiamento di segno del futuro”[4]: il futuro è passato da essere speranza a diventare una minaccia da cui fuggire e stare lontani cercando di proteggersi, il futuro non è più una possibilità o un luogo della realizzazione dei sogni, ma la sorgente dell’incertezza dell’uomo.

E’ infatti radicalmente cambiato «il modo in cui l’uomo d’oggi vive e percepisce il tempo, il suo tempo. Tale percezione è profondamente segnata da quello che potremmo definire il cambiamento di segno del futuro. […] Assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro. […] Non più di quarant’anni fa tutti pensavamo che, prima o poi, saremmo riusciti a guarire malattie gravi come il cancro. […] Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologie non ancora conosciuto… In questa sfumatura del “non ancora” risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza. Lo stesso valeva per l’ingiustizia sociale, l’ignoranza eccetera. […] Il futuro era una promessa messianica. […] Oggi c’è un clima  di diffuso pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso per non dire oscuro… Inquinamenti di ogni tipo, diseguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa ed altrettanto estrema negatività. Il futuro, l’idea stessa di futuro, reca ormai il segno opposto, la positività si trasforma in negatività, la promessa diventa minaccia. […] Per dirla in termini più chiari viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi”»[5], dove «il riferimento è […] all’impotenza , alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altri a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà»[6].

Un’ancora di salvezza potrebbe essere il fare riferimento a quello che il passato ci ha insegnato per cercare di districare la minaccia del futuro. La società però è liquida, fluttuante, mutabile di stato e di forma. «Una società può essere definita “liquido-moderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. […] La vita liquida non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. […] Le condizioni in cui si opera e le strategie formulate in risposta a tali condizioni invecchiano rapidamente e diventano obsolete prima che gli attori abbiano avuto qualche possibilità di apprenderle correttamente. E’ incauto dunque trarre lezioni dall’esperienza e fare affidamento sulle strategie e le tattiche utilizzate con successo in passato: anche se qualcosa ha funzionato, le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto (e forse imprevedibile). Provare a capire come andrà in futuro sulla base di esperienza pregresse diventa sempre più azzardato e sin troppo fuorviante. […] La vita liquida è dunque una vita precaria, vissuta in continua incertezza»[7].

Questo senso di minaccia e di incertezza ha creato nell’uomo un sentimento di insicurezza molto elevato, facendo della nostra società quella che Bauman chiama proprio “la società dell’incertezza” .

Se il passato ha dunque perso di interesse e il futuro è divenuto una minaccia (si è rotta la visione progressiva della storia in cui arrivo dal passato per costruire il futuro – «Il tempo non è più equiparabile ad un fiume che scorre ma ad un insieme di  pozzanghere e piscine, si frammenta in episodi»[8].) da cui difendersi o a cui prepararsi (ogni giovane di oggi ha questa percezione, ben diversa dalla percezione del futuro che avevano i nostri papà quando hanno cominciato a progettare la loro vita adulta!) non resta che l’appiattimento sul presente (presentismo). Il presente diventa l’unica dimensione temporale in cui investire. L’uomo di oggi decide coscientemente di investire negli episodi che concorrono a creare la mia vita perché solo questi sono importanti e soprattutto sicuri e rassicuranti.

«Il passato è utile solo quando e dove può diventare, immediatamente, presente. Quando lo puoi consumare, mangiare, trasformare in vita. Non è un principio estetico, il rapporto con il passato, non è una forma di eleganza. È la risposta a una fame. Il passato non esiste: è una risposta del presente».[9]

L’uomo postmoderno «vive nel presente e grazie al presente. Vive per sopravvivere (finché è possibile) e per ricavare gratificazioni (per quanto è possibile). […] Appiattito in un eterno presente e colmo di ansie di sopravvivenza e gratificazione, il mondo […] non lascia spazio che a preoccupazioni riguardo a ciò che si può, almeno in linea di principio, consumare e degustare subito, qui ed ora»[10].

Concentrarsi sul presente rende importante tutto ciò che accade in questa dimensione e porta l’uomo postmoderno ad interessarsi ai singoli episodi che lo compongono. I frammenti, appunto. Dal mondo delle idee si è rapidamente passati al mondo dei frammenti che hanno il solo scopo di farmi incrementare, il più possibile e il più velocemente possibile, il mio grado di sicurezza e fiducia, personale.

Ed ancor più scioccante per certi versi è che il futuro, vissuto in quest’ottica, diventa una questione totalmente privata e non collettiva (costruisco il mio futuro con gli altri), indifferente (non contro o a favore) a quello delle altre persone che abitano lo stesso tempo: l’importante è massimizzare il risultato per se stessi più che un orientamento culturale e sociale; per cui ogni persona vive, lotta, si spende per la costruzione di un suo personalissimo e privatissimo futuro. Questo indipendentemente che sia a scapito o a favore, assieme o contro al futuro degli altri.

1.2     Esperienza, limite e libertà, velocità

 Esperienza

Se l’uomo postmoderno vive “appiattito in un eterno presente” con l’obiettivo di consumare e vivere tutto ciò che si può, qui ed ora, e di vivere tutti i frammenti che siano funzionali a garantirgli un futuro meno incerto e meno minaccioso è evidente che si adopererà per farlo cercando nella sua vita esperienze che gli permettano di vivere secondo questo stile. Il criterio che guida il vivere dell’uomo postmoderno non è più un bene collettivo e comune ma un bene personalissimo e puntuale che ha lo scopo di aumentare il numero di esperienze utili che si trova a vivere. Noi uomini postmoderni «siamo, profondamente, le situazioni nelle quali viviamo»[11].

L’esperenzialità diventa quindi un valore assoluto, più importante dei tanti valori assoluti con i quali invece la cultura e l’educazione si trova a confrontarsi. I valori sono sideralmente lontani e come tali belli ma poco efficaci alla “valorizzazione” del beneficio personale dell’uomo. Il frammento esistenziale diventa valore esistenziale, diventa l’ispirazione con la quale guidare le propri azioni.

«La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. Ciò significa che negli adolescenti non si verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’amore di sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). Senza questo passaggio si corre il rischio di indurre gli adolescenti a studiare (e vivere) con motivazioni utilitaristiche, impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza. Dove è implicito che ci si salva da soli, con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali».[12]

Se ci salva da soli è evidente che si devono cercare, velocemente, tutte le situazioni che ci possono aiutare in questo. Il percorso di vita non è più equiparabile ad un percorso, più o meno lineare, verso un obiettivo definito, ma è più simile a un moto causale fatto di brevi percorsi scollegati gli uni dagli altri, almeno apparentemente. Sicuramente non collegati in un’ottica di consequenzialità o di causalità. Si accentua quindi il soggettivismo e l’individualismo: gli uomini come tante particelle in moto browniano dove si sottolinea il primato dell’individuo che basta a (e forse è anche troppo per) se stesso.

Bauman differenzia l’uomo postmoderno da quello delle passate epoche (soprattutto a quello moderno) con una metafora molto efficace.
Nel passato l’uomo era di fatto comparabile ad un “pellegrino nel tempo”[13], concentrato nel raggiungere un obiettivo e con un percorso definito e lineare verso il futuro, dove «solo le strade hanno un senso, non le case – le case sono una tentazione al riposo e al rilassamento e portano a dimenticarsi della destinazione»[14]. «In quanto pellegrini, si può camminare verso. […] Si può guardare indietro ai propri passi e riconoscere una strada. Si può riflettere sulla strada fatta e vederla come un progresso verso, un passo avanti, un avvicinarsi; si può fare una distinzione tra “dietro” e “davanti” e programmare la strada che ci aspetta come una successione di passi […].La destinazione, lo scopo del pellegrinaggio della vita, dà forma all’informe, trasforma il frammentario in un intero, dà continuità a ciò che è episodico»[15].

Nella società “liquido-moderna” invece ci sono altre categorie che descrivono l’uomo: il vagabondo – che non prende decisioni, non ipoteca il futuro e non progetta percorsi; il giocatore che velocemente afferra e scommette sulle situazioni che gli si presentano; ed il turista che progetta viaggi, morde e fugge, e ritorna sempre alla sua casa. Nessuno di questi programma viaggi troppo lunghi. L’obiettivo è comune: «non differire la gratificazione. […] A qualsiasi cosa tu tenga, cerca di ottenerla subito; non puoi sapere se la gratificazione che cerchi oggi sarà in egual misura gratificante domani»[16]. Nessuna pianificazione, reversibilità e controllo sono le parole chiave di questi atteggiamenti.

Questo si traduce chiaramente nel primato dell’esperienza in cui ogni frammento, ogni singolo episodio, diventa non solo importante ma fondamentale (perderlo potrebbe significare la perdita di una chance – magari quella decisiva – di felicità), diventando così assimilabile ad un valore esistenziale. Non è importante l’integrazione o l’integrità di una vita, ma la vita come somma, anche non coerente, di frammenti. La vita si trasforma in una successione temporale di nuovi inizi, tutti importanti, tutti (forse) decisivi, tutti (probabilmente) scollegati.

«Oggi si passa rapidamente attraverso una molteplicità di esperienze, ciascuna delle quali suppone riferimenti e visioni della vita differenti, generando una vera frantumazione della coscienza personale; determinando una dispersione che induce a considerare ogni esperienza dello stesso valore dell’altra. […] Una cultura del frammento che fa vivere, godere o patire di ogni singola esperienza e di ogni momento della vita, rinunciando a collocarlo in un quadro unitario di significati»[17].

Libertà e limite

Se questa è la premessa è evidente che cambia anche il modo di approcciare il mondo. Si sviluppa conseguentemente un nuovo modello e concetto di libertà, più “estetica” e meno “etica”. Nasce la cultura del “mi piace” (Il “Mi Piace” di Facebook è sintomatico di questo modo di intendere la realtà), di ciò che mi è utile in questo momento, nel mio presente. Muta la forma del pensiero dell’uomo che non ha più bisogno di  organicità o prospettive di sintesi (Paola Bignardi cita come esempio il mondo del web, fatto di hyperlink in cui si sa da dove si parte, non si sa dove si arriverà, trascinato dal fluire dei link in un processo espandibile potenzialmente all’infinito); un flusso di pensiero che non rimane relegato alla sfera psicologica ma che si traduce direttamente in azioni scollegate e unite da un principio di utilitarismo personale. La libertà quindi non è più intesa come un principio etico per convivere con gli altri, ma come una possibilità di seguire e concretizzare quel flusso di azioni che potenzialmente possono aiutare l’uomo ad aggiungere un frammento di felicità o successo. «La libertà (è) intesa sempre meno come discernimento e scelta tra opportunità contrassegnate da qualche valore, e sempre più come possibilità di muoversi tra le indefinite possibilità che il mercato e il contesto sociale mettono a portata di mano»[18].

Un modello di libertà che «si rivolge quindi all’esperienza di vita, e non alle idee. Poiché è il vissuto a rivelarci che non siamo individui isolati e che la nostra libertà non dipende dal dominio del mondo che ci circonda e delle nostra passioni. […] (Secondo questo modello) possiamo assumerci come molteplicità, come singolarità costituite attraverso molteplicità e per le molteplicità. […] Siamo profondamente le situazioni nelle quali viviamo»[19].

Inoltre in un contesto di questo tipo è evidente che esiste una immensa pluralità di libertà, in cui ciascun individuo sperimenta ed applica la propria, contrassegnata da criteri personali e soggettivi. Di per sé questo aspetto potrebbe rappresentare evidentemente un’opportunità (il confronto di pluralità di esperienze porta tipicamente a sintesi migliori di risultati) se si riuscisse ad ovviare a due grossi rischi: il primo è quello dell’indifferenza e il secondo è quello della constatazione della differenza. Per arrivare a costruire a partire dalla pluralità dei modelli di libertà è necessario interessarsi a quello che l’altro mi propone. Se non ci si interessa al diverso è evidente che non è possibile né conoscerlo, né modificare il proprio punto di vista, né costruire soluzioni condivise (e migliori) assieme. E’ poi importante che l’eventuale interesse non sia relegato ad una semplice constatazione di esistenza in cui si accetta, acriticamente, ogni altro modello che si incontra (“sono affari e scelte sue”) nella logica dei mondi separati e paralleli. Questi due rischi, considerata la base del modello antropologico e culturale di partenza, sono piuttosto concreti e sono aspetti con cui bisogna confrontarsi in una società liquido-moderna come quella in cui viviamo.

La questione della scelta assume un’importanza enorme in questo contesto perché dalla scelta delle esperienzae che ogni persona compie dipende drasticamente la propria felicità (quali link devo scegliere nel mio “web” di frammenti?). «In nessun’altra epoca la necessità di compiere delle scelte è stata avvertita in modo così profondo. In nessun’altra epoca come nell’attuale l’atto di scegliere è stato tanto acutamente consapevole di sé, ed è stato mai compiuto in simili condizioni di dolorosa e insanabile incertezza, sotto la costante minaccia di ‘restare indietro’ e di essere irrevocabilmente esclusi dal gioco»[20].

Questo modello può essere raggiunto solamente attraverso la cancellazione delle impossibilità: l’uomo non può pensare di non poter accedere alle infinte esperienza che il mondo mette a disposizione. L’obiettivo è sperimentare, esserci, non correre il rischio di venire tagliati fuori. La conseguenza è che ogni limite che vincola o preclude una strada deve essere eliminato. Cambia la percezione delle regole. Cambia radicalmente il filtro, in positivo ed in negativo, che l’uomo poneva al suo agire.

In questo  contesto la tecnologia ha dato un forte e grande contributo rendendo accessibile, a tutti e in fretta, informazioni. Tecnologie intelligenti, social network, videogiochi, realtà virtuale hanno profondamente cambiato il limiti del tempo e dello spazio facendo riflettere questa percezione anche alla realtà “solida”. Tutto è possibile e quindi tutto lo diventa. Tutto è accessibile e quindi tutto lo diventa. «Se tutto sembra possibile, allora più niente è reale»[21]. Se niente è realmente reale, se tutto ciò che è reale è quindi una possibilità, è evidente che «cambi(a) il senso del limite, per chi si abitua a toccare con mano quanto numerosi siano gli aspetti della vita che possono essere modificati dalla tecnologia, fino a dare l’illusione che ogni confine potrà essere varcato e che tutto sia possibile. E così si perdono dimensioni esistenziali nell’esistenza reale quale quella di conquista, di fatica, di lavoro»[22].

Velocità

Dunque una libertà estrema, senza (o con pochi) limiti. Per essere applicabile un modello di questo tipo manca di un’ulteriore dimensione, quella temporale. Il tempo, nella società postmoderna, è un tempo veloce. Le informazioni sono accessibili in un click, le distanze si sono accorciate. Tutto è contratto. Il tempo in cui viviamo è un tempo frenetico, dove le possibilità e le offerte fuggono via e scappano. Ciò che viene perso oggi, dal prodotto in promozione al supermercato alla possibilità di vivere un’esperienza di un certo tipo, è un’occasione persa irrimediabilmente.

Per cogliere più esperienze possibili, più frammenti dell’esistenza possibili, l’uomo postmoderno deve essere veloce per non perdere la possibilità di vivere il presente. L’importante è correre per sfruttare le molteplici e variegate possibilità che il mondo offre e non perderle (o cercare di catturarne il maggior numero possibile).

L’uomo postmoderno appiattito nel presente ricerca un gratificazione immediata, ricerca senso nella vita quotidiana  per cui il mondo «non lascia spazio che a preoccupazioni riguardo a ciò che si può, almeno in linea di principio, consumare e degustare subito, qui ed ora»[23].

La velocità del vivere esperienze è assunta a valore primario essendo il modo e il mezzo per poter aumentare statisticamente le proprie possibilità di una gratificazione e di una autorealizzazione. L’uomo deve correre. La stasi è vista come un fardello. L’eternità è ovviamente bandita come concetto. La durata delle esperienze non ha valore, la profondità dei rapporti nemmeno. Ciò che conta è la velocità e l’accelerazione che una persona riesce a mantenere ed imprimere. E’ l’infinità che assume valore perché, asintoticamente, permette di vivere tutte le esperienze rilevanti del mondo e quindi di non perderle.

«L’eternità è ovviamente messa al bando. L’eternità, ma non l’infinito: finché dura, infatti, il presente può essere esteso oltre ogni limite, e contenere tutto ciò di cui, un tempo  si sperava di poter fare esperienza. […] Grazie al numero infinito di esperienze terrene che si spera di poter fare, non si sente la mancanza dell’eternità: anzi la sua perdita può persino passare inosservata. Ciò che conta è la velocità, non la durata. Andando alla giusta velocità si può consumare tutta l’eternità nell’ambito del continuo presente della vita terrena. Il trucco sta nel comprimere tutta l’eternità fino a contenerla nell’arco della vita di un individuo»[24].

Velocità ed accelerazione come mezzi per ottenere un movimento continuo: se si è veloci infatti ci si muove continuamente, si assaggiano nuove sensazioni, si vivono nuove esperienze, si cambia costantemente di luogo e posizione. L’uomo moderno deve cambiare in fretta per riuscire ad emergere e differenziarsi nel presente (il cambiamento è assunto a valore del vivere).

Non è detto che esista un disegno, un collegamento evidente delle esperienze. Il susseguirsi degli eventi potrebbe essere destrutturato, casuale o causale, conscio od inconscio: ciò che conta è vivere il più possibile in fretta provando più cose possibili, a tutti i livelli.

L’esperienza come tale non va quindi approfondita, ma solo sfiorata. E’ il movimento che dà consistenza all’esistenza più che la profondità delle sue tappe. L’uomo postmoderno infatti rifiuta «l’idea che in un qualche momento sia possibile fermarsi o restare nel punto in cui ci si trova, o comunque non dedica la minima attenzione alla linea del traguardo: il suo interesse e il suo sforzo si concentra sulla prossima azione da compiere; sa fin troppo bene che non può sapere né immaginare quale azione dovrà o vorrà svolgere immediatamente dopo. Per lui stare in movimento non rappresenta un impegno temporaneo […]. Muoversi ha come unico scopo quello di restare in movimento, […] perennemente»[25].

Ed in questo meccanismo di toccata e fuga, di dinamismo esteso all’intero presente, è evidente che «se tutti devono fare tutto, è difficile che tutti riescano a fare tutto benissimo: ed ecco la famosa tendenza alla medietà. […] Zambrotta non difenderà bene come Burgnich, ma quante cosa fa in piu? […] La regressione di una capacità genera una moltiplicazione di possibilità. […] Perché queste possibilità diventino reali, è necessaria ancora una cosa: la velocità. […] La medietà è veloce. Il genio è lento. Nella medietà il sistema trova una circolazione rapida delle idee e dei gesti: nel genio, nella profondità dell’individuo più nobile, quel ritmo è spezzato. Un cervello semplice trasmette messaggi più velocemente, un cervello complesso li rallenta. […](Viviamo in ) un gioco veloce in cui tutti giocano simultaneamente tritando un altissimo numero di possibilità»[26].

Quindi in questa velocità finalizzata alla ricerca del maggior numero possibile di esperienze, oltre alla durata anche la profondità perde di significato, essendo percepita come un rallentamento ed un ostacolo all’allargamento dei frammenti che si è in grado di recuperare vivendo. Oggi, l’approfondimento, la verticalità della conoscenza non sono un valore da perseguire ma piuttosto un problema da evitare: non è importante conoscere analiticamente, ma conoscere molte cose superficialmente. Ad esempio Wikipedia, nell’epoca moderna ed in generale nel passato, non avrebbe avuto una vera ragione di essere e di esistere, visto il suo carattere di incertezza. Nell’età postmoderna invece diventa il simbolo della conoscenza: un’ «esperienza», veloce e non profonda, plurale e non soggettiva, incerta ma disponibile: ma queste sono le cose che contano…

1.3     Tre conseguenze

 Tra le moltissime implicazioni che questo  modello antropologico porta con se è forse interessante sottolinearne alcune in quanto utili a definire ulteriori dinamiche in un’ottica educativa e pedagogica.

 Consumo

Date le premesse che abbiamo identificato si può affermare che una prima enorme conseguenza è che «la vita liquida è una vita di consumi» [27]. Il movimento, la velocità, la superficialità, l’esperenzialità segnano in modo definitivo la percezione dell’uomo verso il mondo facendolo diventare un immenso negozio a cui attingere per consumare frammenti di vita. Il mondo stesso diventa oggetto di consumo.

Una caratteristica di tutti gli oggetti che si consumano è quella di perdere la sua utilità attraverso l’uso, man mano che vengono “consumati”. Gli oggetti di consumo si usurano, si deteriorano, diventano meno interessanti non appena ci si abitua al loro utilizzo.

«Gli oggetti di consumo hanno una limitata aspettativa di vita utile, e una volta superato tale limite diventano inadatti  al consumo; e poiché “poter esser consumati” è la sola caratteristica che ne definisca la funzione, essi diventano inadatti a qualsiasi cosa: inutili insomma. A questo punto andrebbero eliminati […] per far posto ad altri oggetti di consumo ancora inutilizzati»[28].

Questa percezione porta con se due grossi punti da tenere presente: il primo riguarda la fedeltà che non è ammessa. La fedeltà è causa di vergogna, non di orgoglio. Fedeltà significa rimanere ancorati al passato, rifiutare il movimento e la velocità, significa rischiare di perdere il treno delle infinte possibilità che il mondo mi presente ogni giorno, in ogni presente. Fedeltà significa correre il rischio di non essere al corrente delle novità, significa continuare ad usare “oggetti” vecchi e datati, inefficaci ed incapaci di essere allineati alle esperienze di novità che si affacciano. Pensiamo ad esempio al cellulare, alle file chilometriche davanti agli Apple Store per accaparrarsi il nuovo iPhone in uscita. La fedeltà rappresenta il rischio «di restare attaccati a qualcosa con cui nessuno vorrebbe farsi vedere, di essere colti alla sprovvista, di perdere il treno del progresso invece di saltarci sopra»[29].

Va da se che non essendo plausibile, nemmeno in linea di principio, riuscire a consumare l’infinità di esperienza che il mondo porta ed offre, che si generi un sentimento interno di insoddisfazione continua, di ricerca perenne dell’ “ultimo modello”. «La vita liquida si alimenta dell’insoddisfazione dell’io rispetto a se stesso» [30] .

L’uomo di oggi vive questa incapacità di adattarsi a ciò che è possibile, cercando di andare costantemente oltre, ricercando spasmodicamente il nuovo, l’attuale, il progresso. E questo genera alle volte frustrazione ed inadeguatezza perché si è costretti ad usare strumenti che sono vecchi e di cui ci si vergogna. Non a caso lo stereotipo di uomo l’abbiamo anche definito come un turista; e chi, più del turista, consuma quello che incontra?

La questione di fondo è fondamentale perché questo modello non si applica solamente agli “oggetti” (da cui nasce la terminologia e per cui è facile capire ciò che si intende) ma a tutte le dinamiche umane, dalle relazioni alle esperienze, dall’antropologia alla sociologia.

Consumatori ed oggetti di consumo sono poco distinguibili. Le persone e gli oggetti sono parte di un “continuum” in cui non c’è chiarezza di cosa venga consumato. «Nella vita liquida la distinzione tra consumatori e oggetti di consumo è fin troppo provvisoria ed effimera, e sempre al condizionale»[31]. Questo significa che gli oggetti e le persone vengono indifferentemente usati per uscire da quel meccanismo di perenne insoddisfazione in cui l’uomo si trova ad agire, concretamente.

Poco conta cosa si deve usare per raggiungere la completezza delle esperienze. Che si tratti di consumare oggetti, servizi, relazioni, o altro. L’importante è ricercare e non fermarsi, non essere fedeli ad un passato che non genera presente, che non genera valore puntuale.

Questo comporta anche un profondo disinteresse verso la vita collettiva per cui, anche sociologicamente, non c’è più un’attenzione diffusa per concorrere ad un bene comune ma semplicemente una ricerca, nella società, di un sistema che permetta di consumare, in sicurezza, il proprio particolare presente.

Collezionisti nel mondo

L’uomo moderno è dunque continuamente in ricerca di qualcosa per rimanere a galla, nel mondo. E’ alla ricerca di esperienze. L’esperienza «è un passaggio forte della vita quotidiana: un luogo in cui la percezione del reale si raggruma in pietra miliare, ricordo e racconto. E’ il momento in cui l’umano prende possesso del suo reame»[32].

L’uomo di oggi è alla ricerca di esperienze in maniera convulsa, quasi escatologica. Per cui è profondamente cambiato il modo di fare esperienze. Oggi è qualcosa che «ha forma di  stringa, di sequenza, di traiettoria: implica un movimento che inanella punti diversi nello spazio del reale»[33].

L’uomo che deve consumare il mondo diventa perciò un collezionista di esperienze e di emozioni, di oggetti e di soggetti. Un esploratore del mondo e un ricercatore di esperienze appunto.

Teniamo presente che nel compiere questa ricerca i canoni sono molto diversi da quelli del pellegrino del passato o dell’esploratore dell’età dell’oro. Il ricercatore di oggi cerca quella che è più efficace per colmare il gap della sua insoddisfazione, usando i criteri insiti in questa società. La ricerca principale oggi viene affrontata attraverso Google, in cui quello che è più importante non è quello che è più vero, ma quello che viene più referenziato e quello che appare prima. Quello è il posto dove la maggior parte delle persone vanno e per questo è il posto più importante. Quello è il posto dove bisogna essere o dove bisogna andare.

Il successo è legato a questa capacità di collezionare quanti più elementi tra quelli che tutti cercano, per rimanere “dentro al cerchio” e non esserne espulsi.

Non vi è nessuna quantificazione effettiva. Il processo è ancora una volta digitale, bianco o nero, ci sono o non ci sono: nessuna comparazione con quello che fanno gli altri è importante. L’unica domando di fondo riguarda la capacità di stare dentro o fuori rispetto a quello che è più ricercato, a quello che la maggior parte delle persone cerca.

E’ quindi evidente che ci si debba abituare a vivere in un mondo relativo, in un mondo dove soggettività ed individualismo sono permeanti. Quello che io devo collezionare per sentirmi adeguato è una percezione mia che ha assoluta e indiscutibile rilevanza. Questa percezione è più forte di qualunque palinsesto culturale o valoriale perché è questa percezione che mi permette di non vergognarmi di quello che consumo, di restare attaccato al movimento che il presente mi chiede, di essere in linea con la necessità di aggiornamento che il mondo-consumo impone.

Abbiamo ottenuto quello che qualcuno chiama il “politeismo dei valori” in cui non si vive più per orizzonti di senso e per scenari morali o etici condivisi ed in cui «l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo»[34]. Gli orientamenti comuni e collettivi, legati ad una cultura di valori, non hanno molta efficacia come tali e se non rientrano in questo contesto di movimento descritto.

Il soggettivismo e l’individualismo sono parte di questo momento ed inseriti in questa logica di senso (o meglio di non-senso). Il relativismo di cui si sente così spesso parlare, spesso in ottica negativizzante e problematica, purtroppo non tiene conto del fatto che non è una conseguenza, negativa o positiva, di un modo di intendere, erroneamente o giustamente, un quadro di riferimento morale. Il relativismo a cui assistiamo oggi è piuttosto una conseguenza di una impianto antropologico imprescindibile e con cui fare i conti quotidianamente, è semplicemente un dato di fatto di questa società postmoderna.

A poco quindi serve una demonizzazione del relativismo come tale se non si è compreso che è un effetto endemico di un sistema culturale e che rappresenta, per l’uomo di oggi, un’opportunità e non una minaccia o una problematica.

Il mondo non è più cambiabile

Se tutto quanto abbiamo descritto rappresenta qualcosa di verosimile un rischio risulta evidente.

Baricco parla di mutazioni in corso, mutazioni che sono capitanate da barbari che in un qualche modo stanno conquistando il mondo, una società cioè in cui «la superficie (è) al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica»[35]. E’ come un momento dove «il Senso, che per secoli è stato legato a un ideale di permanenza, solida e compiuta, si fosse andato a cercare un habitat diverso, sciogliendosi in una forma che è piuttosto movimento, viaggio»[36].

Il rischio forte per chi si occupa quindi di educazione è quello di dover affrontare questo disorientamento culturale, di gestire una relazione con persone che si trovano immersi in una situazione incomprensibile (a loro stessi in primis) ed ingestibile, anche se queste persone sono immerse o nate dentro questo contesto.

Il rischio è quello di non capire come riuscire a contribuire a modellare il mondo affinché diventi qualcosa di adatto alle personali esigenze di ciascuno. Nel passato il mondo era cambiabile, ora invece non lo è. Un solido va modellato per estrarne una forma. Un liquido invece cambia costantemente la sua forma a seconda del contenitore che lo contiene e non in maniera definitiva.

Se mancano grandi speranze e grandi idee capaci di infondere fiducia (come abbiamo detto in precedenza), questa mutazione ci lascia incapaci di cambiare il mondo che ci circonda e ci troviamo a subire i molteplici e diversi contenitori che ci vengono mostrati dalle persone con le quali siamo in contatto. Lo scenario è quello in cui l’azione educativa nello specifico rischi di sembrare inutile o comunque poco (o totalmente) inefficace. Il rischio è di vivere la percezione che nessuno possa avere vera influenza nella vita degli altri, se non in maniera utilitaristica e di consumo, o per un breve e corto momento esistenziale senza una vera forza ontologica.

Le persone quindi operano non con percorsi definiti ma per aggiustamenti, utili a tamponare più che a contribuire ad un vero cambiamento e soprattutto soggetti a mutevoli cambiamenti in corso d’opera. Ed in tutto questo il rischio è che chi guida siano le sensazioni più che i progetti.

Se il mondo non è cambiabile e se ne siamo, nell’intimo, convinti, questo può diventare un problema concreto per chi pensa che l’educazione sia ancora qualcosa di importante.

Postmodernità e scoutismo

Per concludere questa sezione di analisi, quasi per gioco abbiamo con un amico qualche tempo fa sviluppato un raffronto su come differenti culture possano far percepire gli strumenti dello scoutismo in modo assolutamente differente. Se lo scoutismo fosse stato presente nelle diverse recenti epoche dell’uomo le interpretazioni degli strumenti del metodo scout probabilmente sarebbero stati molto diversi. Un gioco come si diceva (e come tale senza nessuna presunzione di completezza o di verità) per rendere però evidente come lo scoutismo non è sicuramente immune da questo condizionamento e che gli strumenti che il metodo offre sicuramente acquistano valenze differenti se contestualizzati in un quadro di riferimento antropologico differente.

  Epoca

tradizionale

Epoca

moderna

Epoca

post moderna

Quando Fino 1789 1789/1989 Dal 1989
Sguardo verso… Passato Futuro Presente
Ruolo predominante Noi Io Io e noi, in conflitto
L’uomo Un pellegrino Un vagabondo Un turista
La “materia” e la “società” Solida (granitica) Gassosa (evanescente) Liquida (adattabile)
Interesse Tradizione Innovazione Ricerca
Verbo preferito Ripetere Inventare/cambiare Capirsi
La comunicazione Il libro L’arte Il (social) network
Ha valore La fedeltà La ragione L’opinione
Aggettivo preferito Fedele e coerente Creativo e libero Perplesso e mutevole
Canzone preferita Dies irae (giudizio di Dio) Nessuno mi può giudicare (Caterina Caselli) Voglio dare un senso alla mia vita (Vasco Rossi)
Se dovessi pensare alla legge scout: Un condensato di sapienza umana Un progetto rivoluzionario di vita,

di uomo

Una delle possibili proposte
Il capo Un’autorità Un mito Un amico
Il metodo Una sicurezza, un successo Se ragionato, un successo Se applicato tout court, un INsuccesso
L’assistente La voce della Chiesa Un rivoluzionario del Vangelo Uno dei tanti che ci sono

 

2.         Le sfide dell’educazione nel contesto postmoderno

Serve dunque l’educazione in un contesto di questo tipo? E se è vero che serve, quali sono le premesse con le quali chi se ne occupa deve confrontarsi? E perché perdere tempo a ragionare su un contesto culturale ed antropologico che non solo è complesso ma anche spaventa?

L’idea che si ha dell’educazione «dipende in dall’idea della persona, della sua natura e del suo destino». Il progetto educativo non può prescindere dalla questione «antropologica di sempre, cioè la domanda relativa a chi è l’uomo, chi sono io, qual è il destino che mi attende, qual è il senso delle giornate che mi è dato di vivere sulla terra»[37].

E’ evidente che rispondere a queste domande non è nemmeno pensabile ed ipotizzabile se non si ha chiaro il contesto entro cui ci si muove, con le sue dinamiche nuove e complesse. La realtà deve essere compresa.

L’educazione è sicuramente una risposta, essendo probabilmente l’unico contesto dove «indurre nuovi tipi di motivazione, sviluppare nuove propensione ed allenare ad impiegare nuove abilità». Pur tuttavia è evidente che la domanda cruciale è: «saranno educazione ed educatori all’altezza? Riusciranno a resistere alle pressioni provenienti dal contesto sociale[…]? Sapranno evitare di farsi mettere al servizio proprio delle pressioni che dovrebbero rifiutare?» [38]

Non sono domande semplici e dalla risposta scontata. E’ evidente che queste domande necessitano di un nuovo impegno degli educatori, capaci di riconoscere la crisi dell’educazione che ha coinvolti i nostri tempi e soprattutto capaci di rimettersi in gioco con fiducia.

La prima fase di questo processo è sicuramente quella della comprensione e della consapevolezza sulla realtà. Parliamo di comprensione piuttosto che di mera conoscenza (cioè non un pensiero raziocinante ma un pensiero che intuisce piuttosto): molto spesso si pensa che basti leggere e studiare qualcosa per capire la realtà. Non basta. La realtà è molteplice, cambiante, in movimento, liquidamente sfuggente. E per questo l’intuizione e la comprensione sono dinamiche da sviluppare con forza e con tenacia.

La seconda invece riguarda la convinzione che conoscendo la realtà, la posso poi cambiare a mio piacimento con gli strumenti che mi sono propri. Purtroppo non è così semplice. «Noi siamo portatori di un dato modello pedagogico che si fonda sull’esistenza di una data realtà. Ora invece dobbiamo sopportare l’idea che il modo con cui siamo stati educati non funzioni più, non perché sia fallimentare, ma perché esso veniva applicato in un mondo tendenzialmente coerente, unificato. Insomma: una prospettiva autoritaria o solo autorevole funziona quando tutti gli attori dell’educazione concordano: insegnanti e genitori, animatori e capi, mondo circostante».[39] Questo mondo non solo è scomparso ma è anche reso più complesso da una realtà caleidoscopica, con figure, sempre mutevoli e sempre frammentate e, statisticamente, mai uguali o ripetibili.

Bauman parla proprio della necessità di cambiare il proprio atteggiamento educativo comparandolo alla differenza che c’è tra i missini balistici (molto precisi e che vanno dritti al bersaglio una volta programmati) con i missili intelligenti (forse meno precisi ma in grado di aggiornare il proprio bersaglio sulla base dei movimenti e delle condizioni al contorno che lo scenario bellico comporta).
E questo si può fare solamente se si è in grado di interpretare correttamente le condizioni al contorno con cui la relazione educativa ci mette in contatto.

Velocemente, e senza la presunzione di essere esaustivi, si danno alcune chiavi di attenzione sulle principali sfide che secondo me coinvolgono l’educatore di oggi ed il capo di oggi. Le sfide sono davvero importanti e rilevanti ma senza la consapevolezza e l’intuizione su queste, è molto difficile pensare di contribuire ad un nuovo umanesimo attraverso l’educazione.

2.1     La progettualità nell’educazione

 La paura e l’incertezza sul futuro che fanno concentrare su un presente piatto e spesso dine a se stesso hano messo in luce (non da sole) le difficoltà a vedere oltre delle nuove generazioni. Si apre quindi una grande sfida che è quella della riscoperta di un progetto e della sua realizzazione, della propria vocazione parlando un linguaggio meno laico.

Se è vero, come è vero, che l’uomo ha perso i suoi riferimenti principali proveniente dalla “storia” e dal valore del passato come passo necessario verso la sintesi sul presente e quindi sul futuro, se è vero che l’uomo cerca in maniera ansimante di trovare la sua identità attraverso la molteplicità e l’esperienza, la prova ansiosa della molteplici possibilità che un mondo veloce ed in accelerazione continua mette a disposizione, è pertanto anche vero che l’uomo ha il bisogno di trovare nuove vie per soddisfare i suoi bisogni primari e secondari. Questo è possibile solo attraverso un’educazione calata in questo contesto culturale, capace di leggere ed agire secondo nuove dinamiche e nuove sfide, attraverso un’educazione che abbia chiara una progettualità su se stessa in primis e sulle persone che vivono queste dinamiche in seconda battuta.

Uno dei compiti principali dell’educazione infatti è quello di porre nelle mani dei giovani tutti i mezzi necessari per riuscire a costruirsi, attivamente ed autonomamente, la propria vita. «L’educazione è quel rapporto che aiuta ciascuno a costruire la propria identità come vocazione e a scegliere la vocazione come volto della propria identità»[40] .

Benedetto XVI identifica in questa ottica l’emergenza educativa connotandone i limiti in tre accezioni ed ambiti differenti e tutti incapaci di soddisfare il bisogno primario della costruzione della propria identità quando vanno a sovrapporsi al processo dell’educazione. Si tratta di derive più che presenti e frutto comunque di un contesto antropologico postmoderno: è facile infatti vederne i principi ispiratori alla luce di quello che abbiamo detto in precedenza. Il primo è un modello educativo concepito solo come “autosviluppo”  in cui l’uomo è autonomo nel suo cammino di crescita e non dipende da nessuno fondamentalmente in questo processo; il secondo si fonda su un naturalismo antropologico basato su scetticismo e relativismo (basta conoscere i meccanismi sociali e naturali assecondandoli per formarsi e formare); la terza questione invece riguarda la dimensione temporale dell’educazione, non sempre chiara e non sempre efficace, situata spesso in bilico tra «una promessa ed un compimento» che potrebbe come no compiersi appunto.  Queste derive dell’idea di educazione sono frutto delle premesse su cui si basa il nostro tempo, sono insite nella dimensione antropologica che l’uomo postmoderno vive.

Ancora più cruciale è il punto che spesso anche chi educa è soggetto a queste derive, pensando e credendo che in nome di un rispetto della pluralità e dell’identità delle persone, educare significhi proprio lasciare che le cose vadano come sono state descritte sopra.

SI tratta di tre dimensioni critiche che identificano chiaramente uno dei principali problemi educativi di questa epoca: quello della mancanza di un senso vero e profondo non solo nella dinamica educativa, ma anche nelle dinamiche dei possibili “compimenti” che potrebbero (come no) esserci. In tutte manca una visione chiara e definita di progettualità sulla persona.

L’opera educativa diventa anche lei quindi “liquida” e pertanto disinteressata ad un progetto vero e proprio su e per la persona e più interessata a non minare quelle dinamiche (che identificano possibili promesse di felicità = sopravvivenza) che sono state descritte.

Se queste le premesse, educare si autodefinisce sempre più come semplice «autosviluppo, autoeducazione e se (educare) comporta semplicemente vivere secondo una natura “plasmabile” a piacere, tutto il percorso educativo viene abbandonato a se stesso: in realtà è soggiogato dal flusso inarrestabile delle emozioni, degli affetti, del sentire, del prova e riprova, dello sperimentalismo, ma non raggiunge mai la forma dell’esperienza. […] (Le esperienze fondamentali dell’uomo) Sono affidate al sentimento e alla sensazione, ma domani ci potrebbe essere un’emozione nuova che cancella la traccia della prima: viene qui minata sino alla radice ogni possibilità di scelta di vita e ogni vocazione stabile. Oggi molto vivono tanti esperimenti, tutti provano tutto, spesso si fatica a scegliere tra infinite possibilità, ma è difficile fare un’esperienza affidabile cui consegnare la propria vita» [41].

E’ dunque evidente che la grande sfida che ha l’educatore attuale è proprio quella di riportare l’educazione al suo significato originario di un processo capace di consegnare gli strumenti necessari (dalla lettura della realtà alla conoscenza di se stesso e della propria identità) per una progettualità completa della persona su stessa. Questo comporta una serie di fatiche che sono senza dubbio complesse nello scenario appena descritto. Lo erano nel passato quando tutto era più granitico e lo sono infinitamente di più in un contesto liquido postmoderno.

E’ interessante capire che la ricerca della vocazione (cioè del senso della propria identità) passa attraverso un cammino (faticoso per definizione) sottolineato da tre dimensioni.

La prima dimensione è  transitiva e prevede di passare dall’io al tu (genitori, educatori, altri) e quindi al noi (al mondo sociale). «E’ essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’ “io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “noi”, è creato per il dialogo, la comunione.[…] E solo l’incontro del tu e del noi che apre l’ “io” a se stesso»[42]. La relazione con gli altri e con il mondo rappresenta quindi la prima dimensione che è necessaria per la definizione della propria identità in quanto ciascuno di noi è capace di definire se stesso solamente grazie al confronto con l’altro, con la diversità. «L’incontro con l’altro apre l’io alla propria interiorità, dischiude in essa una promessa e un appello perché l’uomo si avventuri nel cammino della vita»[43].

Dopo questa dimensione, che sta alla base del processo educativo per la definizione dell’io, ne esiste una seconda drammatica (drama = azione) in cui la relazione educativa passa attraverso l’esperienza ed in cui entra in gioco la dimensione della libertà dell’individuo in relazione a quella di tutti gli altri.

Scegliere in questo momento significa apprendere da quello che si è, e concretizzare in azioni quelle esperienze che servono per aiutare questo percorso. L’educazione in questa fase è cosa quanto mai complessa in quanto nella ricerca della propria strada è necessario mutuare concretamente (e quindi decidere di scegliere) quello che emerge dalla relazione io-tu-noi che sta alla base del processo di definizione di e su se stessi.  Il tema della libertà è dunque strettamente legato a  quello delle scelte, del limite e delle leggi, dei vincoli che in una qualche maniera riducono il campo di azione dell’uomo.

«La libertà deve decidere e decidersi per diventare libera, se resta sospesa a far zapping tra le infinite possibilità dell’esistenza rimane anche inchiodata al punto di partenza, non riesce a darsi un volto e lascia l’uomo senza qualità. L’uomo prende il volto della sua vocazione, della sue scelta di vita»[44]. Per questo il tema della libertà, che entra in maniera così importante in questa dimensione, è fondamentale per l’educazione alla progettualità. Ciascuno di noi non è solo chi è, ma è anche in parte chi decide di essere attraverso le sue azioni. Queste azioni devono quindi essere guidate da un progetto che ne faccia sintesi e che permetta all’uomo di scegliere la sua strada verso la felicità in maniera libera e consapevole.

La terza dimensione è invece narrativa, legato alla costruzioni del proprio percorso personale oltre alle singole azioni e alle singole scelte. Una dimensione che deve portare l’uomo alla narrazione di se stesso al mondo, in maniera unitaria e possibilmente definita, con unità di intenti, messaggi, esperienze. E’ la fase del volo e della testimonianza.

Educare (e-ducere) deve condurre il giovane e quindi la persona ad una declinazione armonica di queste tre fasi: sono fase tutte parimenti delicate e parimente complesse in un quadro di riferimento mutuato (in fretta) come quello della vita liquida. Tutte queste tre dimensioni dell’educazione, necessarie per la definizione di una progettualità sulla propria persona e sul compito dell’educazione stessa, aprono evidentemente ad altrettante sfide educative che non possono essere omesse: la sfida sulle relazioni, la sfida della libertà e del limite, la sfida della testimonianza. Tutte sfide che sono fondamentali in questo modello antropologico di riferimento.

2.2     La sfida delle relazioni

 Abbiamo visto che in questa epoca uno dei tre nuclei cruciali su cui svolgere la propria azione educativa è quello della relazione. La relazione della persona con gli altri e la società.

Le relazioni hanno sempre rivestito un compito fondamentale per permettere alla persona di confrontarsi con se stesso ma nel passato non erano l’unico modo che una persona aveva per identificarsi in una progettualità definita. Nell’epoca postmoderna, in cui la mancanza delle ideologie a depauperato il passato, il futuro e le grandi ideologie la relazione è probabilmente il punto cruciale per la fase di transizione che serve all’identificazione di se stessi.

La relazione è profondamente cambiata nel corso del tempo e sono profondamente cambiati i ritmi ed i mezzi della comunicazione. In un vortice che non si sa dove sia stato generato, i mezzi e la velocità della relazione si autoalimentano creando notevoli problematiche in un ottica di relazione tra persone che decidono di “addomesticarsi”.

Il web, i social media (basti pensare che se facebook fosse una nazione probabilmente sarebbe più grande – e potente – della Cina in termini di numerosità di persone e di influenza), le chat, gli smartphone e i tablet: mezzi che hanno profondamente cambiato il modo con cui per persone si informano e comunicano in termini di frequenza, interazione umana e sociale.

Anche la partecipazione della relazione è diventata molto più semplice: attraverso le tecnologie è possibile sostituire la relazione umana con gli strumenti tecnologici a disposizione per cui il coinvolgimento personale, emotivo, intellettuale, antropologico che una volta caratterizzava la relazione sono venuti meno. Le relazione possono essere sconnesse a proprio uso e consumo, diventano meno pericolose, sono sempre reversibili. Relazioni spesso usa e getta che nascono e muoiono all’interno di un contesto di utilitarismo reciproco delle persone coinvolte, con facilità e disinibizione.

Anche ad un livello più macroscopico e sociale le comunità, gruppi di persone che tradizionalmente sono accomunate da un sentire e un vissuto appunto comunitario e come tali dalle dimensioni e dai contorni definiti, sono ora surclassate dai network in cui le connessioni che identificano le relazioni all’interno del network (e quindi tra le persone) possono venire accese e spente facilmente come in una rete digitale ed in cui la dimensione ed il confine del network stesso è sempre mutevole, sempre dinamico, sempre differente a seconda delle esigenze di esperenzialità delle singole persone che vi accedono, che vi entrano e vi escono con estrema semplicità e facilità.

Relazioni dunque reversibili, ad uso e consumo spesso di un determinato, contingente bisogno e non più dimensionate nel tempo e nello spazio lungo dell’agire umano. «I legami sono disseminati  in una serie di incontri successivi, le identità mimetizzate da maschere indossate una dopo l’altra, le storie di vita sono frammentate in una serie di episodi che rivestono importanza per un periodo breve, vincolato ad una memoria effimera»[45]. In mancanza delle comunità, che l’uomo abitava in cerca di identità e protezione, sicurezza e condivisione, ci sono quindi relazioni “consumistiche” e network in cui l’altro è un mezzo per ottenere gradevoli esperienze ed in cui le persone ritrovano nella tecnologia e nella disponibilità delle informazioni quelle risorse in grado di fornire la sicurezza e la protezione richiesta (addirittura in maniera più efficace e da un punto di vista quantitativo enormemente maggiore). Queste relazioni non possono però generare quei legami duraturi che abbiamo visto essere alla base di un’educazione efficace che ha nella dinamica io-tu-noi un punto di partenza insostituibile per garantire all’uomo una promessa di felicità veritiera attraverso la progettualità della sua esperienza umana.

In questo contesto si innesta la sfida sulle relazioni per l’educatore (e l’uomo postmoderno ovviamente). Come riuscire a recuperare questa dinamica in un contesto così complicato dal punto di vista relazionale? Come riuscire a far interagire questi due mondi? Domande tutt’altro che banali.

Le sfide che queste dinamiche portano alla luce sono senza dubbio particolarmente complesse.

Una prima riflessione riguarda sicuramente il senso del tempo. La relazione, per sua natura, non necessita di frammenti o tempi spezzati e ristretti, ma dei tempi lunghi della conoscenza, del rispetto, della condivisione.

Una dimensione che sicuramente va riguadagnata è quella del tempo in cui coltivare il rapporto con gli altri sia in un’ottica di relazione personale che comunitaria. E’ esperienza comune la frenesia e lo schiacciamento del tempo che subiamo, passando da un frammento all’altro di vita con velocità e senza tempo di dedicare il giusto tempo ai singoli accadimenti. Si tratta di «ritmi frenetici del produttivismo e del consumismo, paralisi dell’impossibilità di progettare nella frammentazione dei tempi della vita che spezzano i giorni nel passaggio da un frammento all’altro, senza filo conduttore, eredità, unificazione»[46]. Per cui educare innanzitutto a un senso vero del tempo diventa un tema cruciale nell’educazione alla relazione che necessita, in maniera decisiva, di una costruzione personale del tempo appunto. Questo è quanto mai importante in questo contesto antropologico in cui il tempo è sempre contratto o modellato a seconda delle esigenze, concentrato in una sola dimensione, personalizzato e tirato a seconda dei propri bisogni.

In più costruendo questo senso del tempo è anche mettere nelle condizioni le persone per recuperare una dimensione sulla realtà e quindi mettere nelle condizioni per «definire sentieri per partecipare alla vita, per vivere la vita come partecipazione al mondo, al tempo all’avventura umana. […] Partecipare è riconoscimento di un legame a cui si appartiene e, insieme, percorso di crescita e maturazione»[47]. Questa partecipazione al tempo e allo spazio in cui gli uomini vivono (e non al tempo scandito dai ritmi della tecnologia) è quindi la prima base per la definizione di una propria crescita. Chiaramente la partecipazione è cosa complessa ma senza di questa non si può sperare di indurre una compromissione delle persone nella relazione. Si tratta ancora una volta di educazione ad esperienze complesse  per la «costruzione dell’identità, segnati dalla differenziazione (di ambienti, incontri; di riferimenti di valore ed orientamenti,…), dalla variabilità (frequenza ed intensità di cambiamenti), dalla possibilità (più apparente che reale; spesso disgiunta dalla speranza)»[48]. Ed in più partecipando si riesce a partecipare anche alla vita di altre uomini e donne, con le quali posso quindi entrare in relazione. Abituare le persone (ed i giovani) alla partecipazione, nel tempo, è sicuramente un altro requisito importante nell’educazione alla dinamica io-tu-noi.

Infine educare alla relazione significa anche pensare di mettere le persone nella condizione di accettare tutto ciò che la relazione comporta ed impone (le fatiche, gli insuccessi, le delusioni incluse), senza la paura del fallimento e della vulnerabilità (così lontane da chi si trincera in un modello relazionale liquido e nel network). Significa educare le persone alla disposizione, alla decisione e alla differenza.

Disposizione come «apertura verso l’altro e il nuovo, non autosufficienza, desiderio di giocarsi e di incontrare. E’ una dimensione esistenziale e non intellettuale, un movimento di esposizione e gioco di se, di offerta (di energie, intelligenza, tempo, risorse)»[49]. In questo è fondamentale istillare un desiderio nel cuore delle persone per la ricerca dell’altro come altro, per la sua accoglienza, come una meta da ricercare per una vera crescita assieme.

«Decisione è decisione personale; azione e presa di posizione. Presa di distanza da riti e modi di pensare cui ci si è abituati, uscita concreta da stili di vita superficiali e scontati. E’ scelta. Scegliere , poi, è sempre scegliere qualcuno, o per qualcuno. E’ un verbo che impegna il soggetto, ma lo colloca in una relazione profonda con altri e con il futuro. Decidere è tagliare, scegliere è legare, definire un patto, un’alleanza: credere nella possibilità di vivere insieme, di ritrovarsi con altri, e grazie ad altri, in umanità più piena»[50]. Decisione significa quindi educare i giovani alla scelta, alla scelta fatta assieme alle persone e non per fuggire da loro. Significa educare le persone a non smaterializzare le scelte della propria vita ma di vederle collocate in una linea temporale che abbraccia l’interezza della vita; e come tale abbraccia anche l’incontro di tutte le altre persone la cui linea interseca o accompagna la propria. Significa educare alla responsabilità perché solo attraverso questo è possibile prendersi cura degli altri attorno a me. Significa educare alla comunicazione efficace con le persone per permettere loro di avere gli strumenti in grado di avvicinare le persone. Significa educare al fallimento, perché le scelte possono anche portare a situazioni spiacevoli, non previste, fallimentari, ma non per questo inutili e da cui fuggire o di cui avere paura.

Infine la differenza, «essere portatori di una differenza di una specificità. Prendere parte chiede coraggio, in un tempo in cui si soffre di una “certa solitudine del senso”»[51]. Differenza non solo da portare ma anche da accettare come ricchezza e come risorsa. Differenza non inutile, di cui si prende meramente atto, ma che contagia la propria vita e la fa mutare, positivamente, verso la definizione di una identità sempre più precisa e chiara.

Decidere di non incontrare l’altro è una scelta che ha conseguenze importanti e definite, è una scelta che non aiuta la definizione della propria identità per cui si rischia di rimanere sempre nello stato del collezionista di emozioni e di relazioni, stato in cui si cerca spasmodicamente e ripetitivamente qualcosa di risolutivo senza mai trovarlo, uno stato di insoddisfazione permanente che impedisce alla propria identità di identificarsi, rimanendo schiacciata tra la paura della realtà e la paura di mai riuscire a vivere la realtà stessa.

Una  volta fatta scattare la necessità della relazione, le condizioni e le infinite possibilità della società postmoderna permettono anche di riuscire a ricavare molto di più che nel passato dalla relazione stessa, grazie alla natura veloce, facilitatrice della società stessa. Se si riesce a deframmentare la relazione e a non viverla come una singola, isolata esperienza, diventa poi esperienza vera di vita che permette una crescita davvero gratificante.

2.3     La sfida del limite e della libertà

La questione del limite e della libertà è quanto mai importante nell’ambito della scenario educativo della postmodernità. Molto spesso non viene riconosciuto il legame tra libertà e progetto di vita e tra libertà e limite, soprattutto in questo contesto socioculturale dove tutto è lecito con lo scopo di massimizzare la propria esperenzialità. Chi educa deve quindi entrare in questa dinamica in modo approfondito.

Innanzitutto la nostra umanità passa attraverso la dimensione del limite. Un limite fisico ma anche un limite morale ed etico. Adamo, Prometeo ed Ulisse hanno tutti sfidato il limite e tutti ne sono stati sconfitti e soggiogati. Purtroppo, come abbiamo detto, oggi sembra che il limite non sia più una dimensione con cui fare i conti e tutto diventa almeno possibile (quando non arriviamo a percepire tutto e, a volte nulla, come reale). Questo genera molti fenomeni a livello sociale che danno sfogo ad altrettante trasgressioni sociali, morali ed etiche. Senza che comunque questo eccesso e questa deriva sia stata capace di dare dei segni che vanno nella direzione dell’appagamento dell’individuo (anzi, più alto diventa la trasgressione, più alto è il limite infranto e più esigente diventa il desiderio/necessità di oltrepassarne uno ancora più sfidante, in un circolo vizioso che mai raggiunge un senso effettivo).

E’ per questo che l’educazione, nell’epoca postmoderna, non può trascurare questo aspetto. «Occorre imparare a pensare la vita dentro i confini che la costituiscono. Questo non significa arrendersi, ma piuttosto cercare la strada per essere se stessi, nella tensione a superarsi: nell’incontro con l’altro, nella reciprocità, nello scambio, nel dialogo, nel desiderio» [52]. La logica del presentismo e del frammento è nemica della progettualità. Per questo la sfida educativa legata ad una cognizione dell’individuo che va oltre la logica del «tutto e subito» insegnando l’accettazione e la necessità del limite umano è una risorsa da cui ricavare nuova energia e nuova vitalità. Il limite è parte della vita e chiunque non potrà mai avere tutto quello che desidera e spera in questo mondo. E’ per questo che si incontra, prima o poi, la sconfitta. Il fallimento, che è parte complementare del limite, è quindi non un inciampo ma anch’esso un momento educativo fondamentale in cui riscontrare e re-incontrare la propria umanità. Il fallimento, a molteplici livelli, è parte integrante dell’uomo e diventa necessario per bilanciare la necessità di successo e di perfezione che l’uomo postmoderno, in ricerca di certezza e sicurezza, pensa sia l’unica soluzione. Nel processo educativo è necessario fare i conti e educare al limite come aspetto, imprescindibile, del vivere e al fallimento per non lasciarsi sconfiggere dai propri errori sapendo, ogni giorno ricominciare.

Si capisce dunque come strettamente  legato al limite ci sia anche il concetto di libertà. In quest’epoca la cultura ci direziona in un ambito in cui la libertà viene scambiata «per la possibilità (ndr. che nasce alla volte da un’effettiva necessità di sopravvivenza, che non è vita) di fare quello che si vuole,  che vorrebbe decisioni sottomesse a nessun vincolo, nella totale possibilità di obbedire alla propria volontà individuale, sciolta da ogni regola e limite. Ci si illude che questa sia la strada dell’appagamento e della realizzazione del sé» [53]. Ma se così fosse, il rischio che l’uomo si trovi sempre nella necessità di dover decidere fra le indefinite possibilità che i mezzi di comunicazione, informazione, accessibilità, relazione ci mettono a disposizione senza sapere effettivamente cosa decidere e capire cosa si perde diventa quanto mai concreto. Più che una corsa verso la felicità l’uomo si cimenterebbe in una vera e propria corsa verso l’instabilità, si ritroverebbe ad essere incapace di dare una forma alla propria identità personale. L’individuo viene quindi triturato da una parte dall’offerta consumistica del mondo postmoderno e dall’altro dal dubbio, quasi amletico, di non essere stato capace di scegliere bene e di non aver avuto la possibilità di vivere quell’esperienza, definitiva, che ancora manca.

L’educazione deve oggi porsi in maniera decisa la questione dell’educazione alla vera libertà. Educare alla libertà significa mettere la persona nella condizione di assaporare la bellezza del vivere senza la frenesia del superamento continuo dell’esistente, scegliendo quindi la libertà, in primis, come libertà proprio dal mondo che ci vuole trascinare in accelerazione lontano da noi stessi. «E’ la persona che si fa libera, dopo aver scelto di essere libera; la libertà non le è mai offerta come un dato già costituito; e nulla al mondo può darle la sicurezza dell’essere libera se essa non si slancia audacemente nell’esperienza della libertà» [54]. Educazione alla libertà è educazione all’accettazione del limite, al riconoscimento e alla ricerca dei condizionamenti a cui si è continuamente sottoposti, alle manipolazioni che ogni giorno tentano di portarci lontani da noi stessi.

L’educazione alla libertà diventa quindi strumentale alla definizione della propria progettualità: una non può esistere senza l’altra. Solo se entrambi questi aspetti convivono in maniera autentica il percorso verso la propria realizzazione diventa vero e possibile.

E’ questa la vera sfida che come educatori abbiamo di fronte in questo tempo.

Teniamo presente poi che educare alla libertà significa anche porre in maniera forte la questione della presenza del male e della sua azione nel mondo e nelle persone; significa affrontare i sentimenti con cui si affronta il male, gli atteggiamenti che si mettono in atto per riconoscerlo e superarlo. Per questo educare alla libertà significa in ultima analisi non solo educare al riconoscimento e all’accettazione del limite ma anche (e quindi soprattutto) educare alla coscienza e alla sua coltivazione. «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore. […] La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» [55].

Educare alla coscienza significa educare al rispetto di se stessi, significa educare le persone all’ascolto della verità sulla loro persona, significa educare le persone all’accoglienza della loro individualità. Significa riconsegnare ai giovani «l’alfabeto dell’interiorità inteso come capacità di riconoscere, di capire e di dare valore a ciò che accade dentro; è la possibilità di sperimentare le dimensioni che stanno oltre la superficie, le parole che stanno oltre la chiacchiera, le esperienze che costruiscono l’esistenza: il silenzio, l’ascolto, la gratuità»[56].

E’ nell’educazione alla coscienza che facciamo ritrovare al giovane la libertà verso il condizionamento, la capacità di staccarsi dalla coralità appiattita in un frenetico e vorticoso movimento di ricerca di vuoto per sperimentare un silenzio capace di far ritrovare senso e padronanza al proprio io, spesso confuso e incapace di intravedere una via.  «Dentro la coscienza, l’educatore insegna a declinare nel concreto l’incontro tra libertà e verità, a esercitarsi nella fatica di decisioni libere, a conoscere il dramma dell’incontro tra valori nella loro assolutezza e le scelte storiche nella loro parzialità»[57]. Questa è la paura che ognuno di noi vive. Ed è qui che l’azione educativa deve essere più presente, appassionata e forte.

2.4     La sfida della testimonianza

Queste sfide trovano tutte una sintesi nell’educatore, qualora questo sia capace di interpretare e vivere coerentemente l’idea di uomo che l’antropologia postmoderna ha ormai definitivamente delineato.

In quest’epoca dove la storia e la tradizione si sono svuotate di rilevanza, in cui i valori ci sono ma sono sempre più spesso considerati se non irrilevanti almeno lontani, quello che rimane è l’uomo, con la sua vita, il suo percorso, la sua testimonianza. La testimonianza è di fatto il cardine attorno a cui ruota e con cui ci si gioca l’effettiva capacità di educare i giovani di oggi.

Prima di approfondire cosa significa per noi «educatori liquidi» la testimonianza e di capirne la portata  non si può non prendere in considerazione il fatto che l’autorità è entrata definitivamente in crisi. Un modello educativo basato su una linea temporale, in cui da padre in figlio si trapassavano gli impianti valoriali, etici, morali non ha quasi più efficacia. L’ubbidienza del giovane si dà perché l’adulto, con la sua vita, offre un’aspettativa di futuro che è credibile, magari impegnativa ma positiva. Oggi non si vede più come l’adulto sia serenamente responsabile, perché giovani e adulti condividiamo tutti una cultura in cui il futuro da promessa è diventato minaccia, il bene non sembra né visibile né condivisibile, e quindi il giovane non ha motivo di ubbidire: perché dovrebbe imitare l’adulto? Per cosa? In nome di cosa lo dovrebbe ascoltare? Dov’è il senso di un bene che va costruendosi di generazione in generazione, trasmettendosi da te a me, da padre a figlio? Se il quadro di riferimento diventa quello che abbiamo analizzato, questo processo, che ha funzionato fino alla generazione prima dell’attuale, non può più funzionare in maniera implicita e meccanica. E’ principalmente a questo disorientamento che si lega l’attuale crisi dell’educazione in cui i genitori, gli insegnanti, gli istruttori, gli educatori avendo perso un modello (e molto in fretta purtroppo) educativo che aveva sempre funzionato hanno cominciato a cercare rapide scorciatoie per ovviare al loro senso di impotenza e di inefficacia. Le associazioni educative con un metodo più strutturato (come ad esempio lo scoutismo) hanno avuto la fortuna di vedere questa crisi ed incertezza più dilazionata e magari meno prepotente. E’ una chimera pensare però di esserne immuni e di non doverne fare i conti solo grazie al fatto che un metodo (=insieme di strumenti) definito esiste e va applicato. Le radici profonde, quasi ontologiche, di questa crisi sono ovunque e ogni educatore deve porsi le domande di senso su come educare effettivamente in questo contesto complesso.

Questo ha portato al nascere di strategie sbagliate, non efficaci, non capaci di risolvere l’incertezza educativa che ancora oggi si vive con urgenza (non a caso è su questi temi che verte la discussione culturale di questi tempi). In questo contesto e nel tentativo di trovare una strada percorribile è successo che i rapporti giovani-adulti sono diventati simmetrici, e così gli adulti per ottenere ubbidienza ricorrono alla «forza»: la forza della coercizione o la forza della seduzione, educatori dominatori o educatori venditori. In questo modo al principio dell’autorità si sostituisce l’autoritarismo in cui a farne la spese e la relazione educativa stessa.

Nel primo caso il ricorso alle regole può essere svuotato dei significati e fatto valere solo per contenere una situazione, per gestirla, per mantenerne il controllo; il riferimento ad un quadro di riferimento etico e morale (ad es. come avviene nel nostro metodo scout con la legge) diventa importante, ma con il rischio che può venire esplicitato senza chiarezza sulle motivazioni di fondo e con il solo fine di vederlo applicato (in quanto i giovani si dimostrano disinteressati al valore e concentrati sull’esperienza); in questo modello autoritario si parla di valori in modo disincarnato mostrando e parlando di cose lontane dall’esperienza personale e dalla narrazione dell’educatore e dei giovani; premi e punizioni possono diventare il fine invece che solo lo strumento; i buoni o cattivi comportamenti o gli atteggiamenti esteriori, corretti o scorretti, possono essere presi come metro di giudizio delle persone. E cosa ancora più pericolosa l’educatore stesso può vivere la ”coerenza” come il vestito con cui presentarsi e irrigidirsi quindi in uno stile incapace di accettare, accogliere, tollerare le proprie e altrui debolezze spingendosi in un gioco di ruolo che porta all’inefficacia educativa con certezza matematica.

Dall’altra parte, l’educazione può invece essere orientata alla seduzione, alla conduzione a se (se-ducere) in cui l’educatore si concentra sul vendere un’immagine e uno stile vincenti, un ottenere scelte in base alla simpatia conquistata, a una specie di connivenza nelle trasgressioni, a un legame affettivo non del tutto libero. La seduzione ha il fine di ottenere un consenso sulla propria figura che però, proprio nel momento in cui viene cercato, diventa immediatamente un peso che impedisce un rapporto educativo significativo e veritiero. Chi seduce permette all’altro tutto poiché diventa schiavo del suo consenso e quindi, nella paura di tagliare questo legame, si alimenta l’incapacità di una relazione educativa libera.

Atteggiamenti a cui nessuno, in questo tempo, è immune (nello scoutismo questi due rischi sono potenzialmente potenziati dal metodo stesso); atteggiamenti che nascono da un’emergenza e che come tali non sono capaci di risolvere la questione educativa ma di radicalizzarla in esperienze di insuccesso, fatica, sfinimento, incapacità. In entrambi i casi la sintesi non può che essere fallimentare nel lungo periodo (e l’educazione, si sa, è cosa lunga).

La risposta a questa crisi si trova invece nelle sfida di una testimonianza vera, intesa come capacità di interporre tra l’educatore ed il giovane una risposta di vita che nasce da una narrazione credibile e matura. «Il processo educativo è efficace quando due persone si incontrano e si coinvolgono profondamente, quando il rapporto è instaurato e mantenuto in un clima di gratuità oltre la logica della funzionalità, rifuggendo dall’autoritarismo che soffoca la libertà e dal permissivismo che rende insignificante la relazione» [58].

Il cammino educativo è un cammino di umanità, vera, capace di mettere in relazione due persone. Anche BP, quando pensava agli atteggiamenti educativi efficaci, sottolineava l’importanza dell’essere fratelli maggiori e dell’attenzione al singolo, lasciando la libertà al ragazzo nell’autoeducazione. Questo è un cammino «testimoniale» che permette di far germogliare un rapporto educativo vero e ricco di senso.

Nell’ottica della testimonianza l’educatore è innanzitutto persona che ama la vita e sa quindi presentarne il valore più bello. L’educatore deve «mostrare la bellezza di una umanità realizzata, attraverso una vita credibile, attraverso la stessa umanità di chi viene educato» [59]. L’educatore è uomo vero che non teme di mostrare le sue debolezze e le sue forze, è persona capace di narrare la sua apertura alla vita con gioia, è persona che non si mostra superiore all’altro, ma parimenti uomo. Ed è in questa umanità che trova, continuamente e ripetutamente, carica per affrontare il percorso della vita ed è con questa umanità, incarnata, che affronta la relazione educativa. E’ proprio per questo che diventa persona credibile agli occhi dei giovani, soprattutto in un  contesto liquido. Non è persona che impone o che attrae, ma persona che si vuole solo presentare come tale, con le sue forze e le sue debolezze. Vive certamente con convinzione ciò che propone e che chiede, ma non senza la fatica della coerenza, della conquista degli obiettivi, delle risposte. Non senza le cadute e la durezza del rialzarsi. Ed è per questo che diventa autorevole, creduto e preso in considerazione.

Questa è la principale forza della testimonianza. Senza di questo la testimonianza non è credibile, non è plausibile e non può venire accolta. Solo partendo da qui è possibile lavorare su una relazione con l’altro che poi possa operare (anche ma non solo) in ottica educativa. Infatti nella testimonianza chi educa si concentra nella relazione con l’altro, al di là di ruoli e di etichette, al di là dei giudizi.

La testimonianza, per essere efficace, deve essere basata su una relazione capace di prendersi a cuore l’altro. Questo significa che chi educa attraverso la propria testimonianza è disposto ad accogliere, tout court; è capace di leggere l’altro, di capirlo, di ascoltarlo e di valorizzarlo; è capace di mettersi in comunione con l’altro ricercando un legame che testimonia la relazione stessa. In questo legame si instaura il presupposto per far si che la propria testimonianza, mai perfetta, diventi feconda e credibile, diventi efficace e capace di creare un valore educativo. E’ una relazione di libertà e per la libertà dove il l’unione non è creata da «seduzione o autorità» ma dall’umanità delle persone, unico «valore» capace di fare breccia in questa epoca liquida.  E’ una relazione di rispetto. E’ una relazione che non ha paura di farsi da parte quando ciò diventa necessario e d’altra parte nemmeno di farsi forte o più autorevole quando ce ne siano i presupposti. Ed in questo, automaticamente, l’asimmetria necessaria nell’atteggiamento del fratello maggiore, e più in generale nella relazione educativa, viene automaticamente creato con efficacia, dato che è la credibilità della testimonianza stessa che ne crea i presupposti (credibilità, non perfezione ovviamente).

«Servono adulti (ndr = educatori) con narrazioni, competenze, regole da contrattare e limiti da segnare, responsabilità cui richiamare. […] Molti adulti rinunciano a fare una proposta sensata, a evocare o trasferire passione: “rubano” ad adolescenti e giovani quell’alterità rappresentata da adulti portatori di storie, di valori e di intenzioni, necessari per favorire l’attraversamento di una nuova nascita.»[60]. Servono in sintesi educatori capaci di essere testimoni credibili, sulla scia della testimonianza più bella di cui abbiamo traccia che è quella di Gesù, non perfetta ma umanamente straordinaria.

3.         Conclusione

Abbiamo evidenziato come il ragazzo che noi vogliamo educare, portare ad essere “uomo e donna di carattere”, vive in un contesto tutt’altro che sterile ed edulcorato: vive in una società che (ci piaccia o meno) ne influenza, modella, plasma il modo di essere e di sentire. Il carattere del ragazzo molto difficilmente riesce a prescindere dal contenitore in cui è contenuto, come l’acqua difficilmente non prende la forma della bottiglia entro cui è contenuta. La questione più rilevante è poi che non solo il ragazzo che vogliamo educare ma noi stessi educatori siamo influenzati da questo modello antropologico.

Abbiamo visto dunque che ci sono delle sfide che si mostrano come chiare ed evidenti per riuscire ad operare in questo contesto culturale. Sfide che riguardano l’uomo, le sue relazioni, la sua libertà e la sua testimonianza.

La questione fondamentale allora ed in tutto questo mi sembra essere la speranza.

In particolare su quale speranza un educatore stia giocando la sua vita.

La questione è capire se questa speranza sia capace o meno di tradursi in scelte soggettivamente rilevanti,  se questa speranza sia capace o no di trasparire in atteggiamenti, gesti e parole che abbiano la forza dell’autenticità, se questa speranza sia capace di dare la forza per ritrovare se stessi come uomini e testimoniarsi come tali nella relazione educativa.

 

Chi ha steso braccia al largo
battendo le pinne dei piedi
gli occhi assorti nel buio del respiro,
chi si è immerso nel fondo di pupilla
di una cernia intanata
dimenticando l’aria, chi ha legato
all’albero una tela e ha combinato
la rotta e la deriva, chi ha remato
in piedi a legni lunghi: questi sanno
che le acque hanno volti.
E sopra i volti affiorano
burrasche, bonacce, correnti
e il salto dei pesci che sognano il volo
.

(Erri de Luca, Volti)


[1] Paolo Bagnasco – Intervento al consiglio nazionale dell’Agesc (17 Giugno 2007)

[2] Umberto Galimberti – L’ospite inquietante

[3] Gaudium et Spes  – Proemio, cap. 4

[4] M. Benasayag e G. Schmidt – L’epoca delle passioni tristi

[5] M. Benasayag e G. Schmidt – L’epoca delle passioni tristi

[6] U. Galimberti – L’ospite inquietante

[7] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[8] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[9] A. Baricco – I barbari

[10] Z. Bauman – Vita liquida

[11] M. Benasayag e G. Schmidt – L’epoca delle passioni tristi

[12] U. Galimberti – L’ospite inquietante

[13] Sant’Agostino

[14] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[15] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[16] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[17] P. Bignardi – Il senso dell’educazione

[18] P. Bignardi – Il senso dell’educazione

[19] M. Benasayag e G. Schmidt – L’epoca delle passioni tristi

[20] Z. Bauman – Vita liquida

[21] M. Benasayag e G. Schmidt – L’epoca delle passioni tristi

[22] P. Bignardi – Il senso dell’educazione

[23] Z. Bauman – Vita liquida

[24] Z. Bauman – Vita liquida

[25] Z. Bauman – Vita liquida

[26] A. Baricco – I barbari

[27] Z. Bauman – Vita liquida

[28] Z. Bauman – Vita liquida

[29] Z. Bauman – Vita liquida

[30] Z. Bauman – Vita liquida

[31] Z. Bauman – Vita liquida

[32] A. Baricco – I barbari

[33] A. Baricco – I barbari

[34] F. Volpi – Il nichilismo

[35] A. Baricco – I barbari

[36] A. Baricco – I barbari

[37] P. Bignardi – Il senso dell’educazione

[38] Z. Bauman – Vita liquida

[39] Giovanni Realdi

[40] Franco Giulio Brambilla – Educare impegno di tutti

[41] Franco Giulio Brambilla – Educare impegno di tutti

[42] Benedetto XVI – Discorso alla 61ma Assemblea generale della CEI

[43] Franco Giulio Brambilla – Educare impegno di tutti

[44] Franco Giulio Brambilla – Educare impegno di tutti

[45] Z. Bauman – La società dell’incertezza

[46] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[47] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[48] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[49] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[50] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[51] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

[52] Paola Bignardi – Il senso dell’educazione

[53] Paola Bignardi – Il senso dell’educazione

[54] E. Mounier – Il personalismo

[55] Gaudium et Spes

[56] Paola Bignardi – Il senso dell’educazione

[57] Paola Bignardi – Il senso dell’educazione

[58] Educare alla buona vita del Vangelo

[59] Paola Bignardi – Il senso dell’educazione

[60] Ivo Lizzoni – Educare impegno di tutti

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