Atti del Convegno
Educare, un impegno da condividere
Basilica S. Croce in Gerusalemme in Roma – 16 Aprile 2016
La celebrazione dei quarant’anni dalla fondazione degli Scout d’Europa FSE, tenutasi nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, è stata arricchita da un incontro molto articolato e proficuo, negli storici locali adiacenti alla Basilica stessa, dove negli anni si sono succeduti molti eventi significativi della vita dell’Associazione.
L’intera giornata è passata nel continuo dialogo tra passato e futuro, ricordo degli obiettivi raggiunti e presa di coscienza delle sfide che stanno davanti alla Chiesa e agli Scout, gratitudine ai protagonisti di una storia entusiasmante, e insieme coinvolgimento di amici vecchi e nuovi, nella comune ricerca di proposte e progetti per un bene più grande di tutti noi.
Il mondo è cambiato profondamente negli ultimi quarant’anni. Nel 1976 non c’erano ancora i computer, tanto meno internet o i telefoni cellulari. I popoli vivevano nella separazione dei rispettivi campi d’influenza sociale e ideologica, poi sono crollati dei muri, ci si è illusi di poter vivere tutti in una casa comune globalizzata, infine si è ricominciato a costruire muri e a separarsi in base a diverse concezioni del mondo. Nel frattempo, gli scout hanno saputo testimoniare una fedeltà quasi unica al mondo ai propri ideali e ai metodi tramandati da un secolo di attività educativa.
Ecco perché è così importante domandarsi quale debba essere il futuro, facendosi illuminare dal passato. Le relazioni di questo convegno, che qui presentiamo, sono un contributo straordinario a questa costruzione di ponti tra le generazioni. Insieme agli Scout d’Europa hanno voluto dialogare altri fratelli e sorelle scout e non scout, membri della grande famiglia della Chiesa, rappresentanti di associazioni nate prima e dopo di noi. Riteniamo essenziale per noi questo dialogo, che ci ha permesso di non rimanere confinati nei ricordi e nelle riflessioni, ma ci stimola a crescere insieme nel Corpo di Cristo, che dona la vita per ogni ragazzo e ragazza, per ogni uomo e ogni donna.
Le premesse e il tema del Convegno
Dopo quarant’anni di vita associativa, e stimolati dalla ricorrenza dei cent’anni di presenza dello Scautismo Cattolico in Italia in favore dell’educazione della gioventù e la crescita della società, ci siamo chiesti: qual è, oggi, la realtà giovanile in rapporto ai nostri fondamenti associativi? Come si può educare al senso civico, all’assunzione di responsabilità verso gli altri, a un’identità sessuale che costruisca rapporti rispettosi, a una Fede che si traduca nei comportamenti e nelle scelte di vita, a quella “laicità” capace di avere uno sguardo non ideologico ma basato sulla realtà dell’umano…
Quali sono le “premesse” antropologiche e sociologiche nel contesto odierno?
L’azione educativa deve essere un impegno da condividere innanzitutto con quanti, nella Chiesa, hanno a cuore la trasmissione della Fede alle giovani generazioni.
Nella Chiesa l’annuncio è sempre e comunque il vero metodo educativo, che rigenera la comunione della memoria e della testimonianza tra le varie generazioni. Vogliamo allora confrontarci sulla nostra capacità di sostenerci reciprocamente in questa comunione, nella solidarietà con le famiglie e con la società che cambia attorno a noi e dentro di noi.
Saluto del Presidente dell’Associazione Italiana Guide e Scouts d’Europa Cattolici Italiani
Antonio Zoccoletto
Cari consiglieri nazionali, gentili ospiti un caloroso saluto e benvenuti in questo luogo che ospitò in un locale della Basilica la prima sede associativa.
Il Convegno di oggi è stato voluto dal Consiglio Direttivo e organizzato con l’aiuto del Centro Studi perché il 40ennale della fondazione della nostra Associazione diventi un’occasione per guardare al futuro educativo nel nostro Paese le cui giovani generazioni vogliamo continuare a servire con lo stile e secondo i principi associativi.
Questa sfida educativa richiede, a nostro avviso, la collaborazione tra tutti coloro che operano in questo ambito sorretti dalla fede nel Signore Gesù, in primis nello scautismo ma anche nei movimenti ed associazioni che come noi perseguono la crescita umana, civile e religiosa di ragazze e ragazzi che le famiglie ci affidano.
I primi anni del cammino associativo non sono stati facili e la navigazione ha incontrato scogli duri da superare; l’inizio di quel cammino avvenne in un clima carico di forti contrasti sociali e culturali, e la nostra nascita è dovuta all’intuizione e al coraggio di quelle Capo e quei Capi che fondarono l’Associazione e a coloro che nei primi anni sacrificarono tante energie per lo sviluppo metodologico, morale e numerico.
Un aiuto fondamentale in questi 40 anni lo abbiamo ricevuto dalle famiglie che hanno sostenuto la nostra opera con fiducia, con riconoscenza e affetto.
Abbiamo trovato ospitalità e riscontrato simpatia in tante parrocchie e diocesi e ai Vescovi, parroci e assistenti che ci hanno aiutato va il nostro filiale ringraziamento.
Ma è soprattutto in forza dello spirito di servizio e della testimonianza di tanti Capi in tutta Italia se possiamo dire, solo con un po’ di orgoglio, di aver reso possibile un’efficace azione educativa che affascina tante ragazze e ragazzi del nostro Paese, per farli crescere come buoni cristiani e buoni cittadini.
È per merito loro che oggi l’Associazione è pienamente inserita e riconosciuta nella società e nella Chiesa, e possiamo dirci in fraternità con le altre associazioni scout ed in particolare con le sorelle e i fratelli dell’Agesci, con i quali condividiamo la Fede e la tensione educativa per uno scautismo cattolico (di cui quest’anno ricorrono i 100 anni di nascita nel nostro Paese) che sia di autentica testimonianza dell’amore e della misericordia di Dio per gli uomini.
Lo sguardo di un educatore si rivolge necessariamente al futuro con la capacità di discernere il cammino nel complesso quadro sociale in cui siamo inseriti.
E’ evidente a tutti che gli ultimi 40 anni hanno visto un profondo cambiamento, ancora in atto, nelle relazioni tra le persone, nelle strutture sociali, nella stessa auto-rappresentazione della nostra civiltà.
Senza entrare in analisi che esulano dal nostro obiettivo, quello su cui oggi vogliamo riflettere, con la collaborazione dei nostri graditi ospiti, sono due ambiti tra loro connessi.
I fondamenti associativi (associazione italiana/cattolica/educativa secondo metodo scout/di guide e di scouts/laica/apartitica/europea) possono ancora essere proposti ai giovani per la loro crescita umana e spirituale vivendo lo scautismo come avventura che prepara alla vita ? Lo scautismo cattolico italiano è ancora in grado di proporsi, e proporre orizzonti larghi ed entusiasmanti alle ragazze e ai ragazzi italiani?
Vogliamo anche chiederci, assieme a quanti operano come cristiani nel campo educativo, se la trasmissione della Fede sia il centro del nostro agire e non corra invece il rischio di diventare un “di cui” per i condizionamenti di un mondo che talvolta è anti-cristiano in modo ideologico.
Mantenerci fedeli agli ideali che hanno costituito questa associazione significa per noi una costante verifica sul campo cioè un confronto con le sfide educative del presente perché lo scautismo, con le sue peculiarità pedagogiche, possa portare le ragazze ed i ragazzi scout ad affrontare la vita con carità fraterna, con fede autentica e con la speranza in un mondo migliore.
L’aiuto del Signore e la protezione di Maria ci mantengano sul sentiero della salvezza.
Educazione, mondo giovanile, fondamenti associativi (*)
Professoressa Chiara Giaccardi – Università Cattolica di Milano
Vi ringrazio per quest’invito. Io credo che festeggiare un anniversario sia una cosa molto importante. Bisogna essere orgogliosi del cammino fatto, bisogna essere responsabili dell’eredità che si è ricevuta, bisogna essere creativi, nel rilanciare con fedeltà ciò che abbiamo ricevuto. E credo che il modo migliore sia appunto quello di celebrare, di festeggiare, di ritrovarsi insieme a pensare ma anche semplicemente gioire del cammino fatto.
Io sono mamma di scout, Agesci, fratelli nel coniugare quest’amore per la fraternità, per la natura vista come creato. Sono mamma di 5 figli più uno in affido, sono anche suocera da un anno e quindi spero che la mia relazione intersechi, intrecci alcune delle vostre domande perché so anche la fatica di mantenere questo tipo di impegno in un contesto che è centrifugo, in un contesto in cui l’individualismo prevale sul dedicare il tempo agli altri, in cui mille impegni anche nella buona volontà rendono difficile dedicare il tempo per l’associazione e cosi via. Quindi vivo sulla mia pelle tutti i dubbi le fatiche dei miei figli.
Ho preparato un percorso in 3 passaggi:
- Il primo riguarda il tema che fa da sfondo a questo intervento che è ‘in quale mondo viviamo?’ Viviamo in un mondo ‘misto’, in cui la dimensione digitale è profondamente intrecciata a quella materiale, anche se questa cosa non è ancora entrata nella mentalità di tutti e questo ha delle implicazioni.
- Un secondo passaggio di questo percorso riguarda il tema dell’identità e delle relazioni, e qui più che altro lancio una serie di questioni che appunto spero siano utili, sono più dei flash che una valutazione.
- Il terzo punto, che forse è quello più importante, è sul che cosa significhi la sfida educativa, che cosa significa il metodo scout per la sfida educativa, per quell’emergenza educativa che oggi è innegabile. Partendo dalla trasmissione, quindi dall’idea di lanciare, di inculcare dei principi, delle idee, per giungere alla condivisione-contribuzione – partecipare non significa prendere un pezzo, ma significa dare qualcosa – nella fraternità. Anche questo è fondamentale e ha delle implicazioni fortissime nella custodia della casa comune, che vuol dire prendersi cura degli altri, prendersi cura del mondo e dell’ambiente perché sappiamo che siamo fratelli, perché sappiamo che il mondo è stato creato.
In che ambiente viviamo.
Intanto la comunicazione, e anche qui dobbiamo fare piazza pulita delle definizioni che ci vengono di default. Comunicare non significa ‘dire qualcosa a qualcuno’, non vuol dire essere mittenti e ricettori, ma ridurre le distanze, indica che laddove c’è distanza noi cerchiamo di costruire, di allargare ciò che è comune. È quello che sta facendo Papa Francesco con i suoi movimenti, con i suoi spostamenti, cercando di ridurre anche fisicamente le distanze. Andare anche fisicamente verso gli altri. Quindi, comunicare viene da Communis che significa che il comune non sta prima, non è che andiamo d’accordo solo con chi la pensa come noi, ma comune è l’obiettivo che ci diamo, come costruire ciò che ci tiene insieme, come allargare ciò che ci unisce riducendo ciò che ci divide, questa è la comunicazione! E naturalmente in questa comunicazione noi abbiamo dei dispositivi che da una parte facilitano, dall’altra ostacolano. Importante è non chiamarli semplicemente strumenti, perché uno strumento è un qualcosa che noi usiamo solo alla bisogna, mentre i dispositivi sono qualcosa che funzione costantemente, che costantemente fa parte della nostra esperienza, è un’estensione sempre attiva di noi stessi e in qualche modo modifica anche l’ambiente in cui siamo. Allora, i media hanno anche loro una storia che va dai mass-media, ai personal-media, ai social-media.
Non abbiamo tempo di entrare in questa storia, che però ha anche delle implicazioni sul nostro modo di stare insieme. L’importante è mettere l’accento sulla dimensione giusta, che è quella antropologica e non quella tecnologica. Perché se noi pensiamo ai dispositivi solo come qualcosa di cui disporre – se noi entriamo dentro questa logica, e in qualche modo ci accomodiamo nella logica del dispositivo che è quella del disporre, dell’usare come oggetti gli strumenti, ma anche le persone e l’ambiente, in realtà questa logica si ritorce contro di noi. E’ una logica che, se noi la sposiamo, in qualche modo ci condiziona. Allora l’importante è tenere l’accento sulla dimensione antropologica. Non perché queste cose non siano importanti, ma perché soltanto in questo modo riusciamo a non restare intrappolati.
Ci sono dei rischi nell’uso dei dispositivi, però è importante non cadere in una serie di luoghi comuni che il buon senso delle volte ci porta ad accettare in maniera acritica.
Sono tre i luoghi comuni in cui non cadere: il determinismo tecnologico, il dualismo digitale e il divario generazionale.
Il determinismo tecnologico emerge chiaramente da un’immagine che mette accanto due libri molto importanti, di due autori molto importanti “Internet ci rende stupidi?” di Nicolas Carr e “Perché la rete ci rende intelligenti?” di Howard Rheingold, che dicono due cose opposte commettendo lo stesso errore. Come se da alcune condizioni tecniche ci fossero degli effetti causali necessari di un certo tipo, positivo o negativo. E’ chiaro se i media sono il nostro ambiente, noi non possiamo non adattarci all’ambiente, ma questo vale anche per l’ambiente fisico. Allora, io mi sono vestita in maniera più leggera di come potevo essere a Milano all’Università, mi devo adattare all’ambiente, mi scopro se fa caldo, mi copro se fa freddo. Costruisco le case abbastanza vicino all’acqua per poterla usare, ma non troppo vicino perché se no l’acqua mi travolge, mi devo adattare all’ambiente. Noi diciamo che l’uomo “abita” l’ambiente. Si adatta, ma si adatta in modo creativo, in modo simbolico. Iscrivendo nell’ambiente i significati che per lui sono importanti e quindi costruendo delle bellissime città con delle piazze, quelle italiane sono le più belle del mondo, spazi vuoti dove incontrarsi. Quindi, abitare significa riconoscere che non siamo i sovrani che fanno quello che vogliono, che non hanno vincoli, ma neanche siamo totalmente condizionati. Quelli sono gli animali: si scavano la terra per sopravvivere, ma noi abitiamo. Abitare e vivere in tante lingue sono sinonimi. Quindi non pensiamo che la rete ci costringa ad essere in un certo modo. È chiaro che facilita alcune cose e rende più difficili altre, ma questa è la sfida che ogni ambiente ci pone.
Il dualismo digitale dice invece che la realtà materiale è quella buona, e quella digitale è quella falsa, piena di finzione e di trappole. Ecco, questo è falso, perché nella realtà in cui viviamo faccia a faccia noi recitiamo personaggi, raccontiamo menzogne, facciamo finta di essere quello che non siamo, così come nella realtà digitale possiamo benissimo essere noi stessi; già qualche tweet è partito su questo incontro, per raccontare quello che facciamo, quello in cui crediamo. Quindi dire che l’autenticità sta da una parte e la menzogna dall’altra è sbagliato. Così com’è sbagliato dire che il problema è solo quantitativo, cioè più sto in rete, meno sto nella realtà. Questo è già un po’ più difficile da capire. Facebook e i social media sono come una buona torta, però se mangio solo questa torta non posso mangiare le cose che mi fanno bene. La torta è buona, ma da sola fa male. La coperta è corta, se la tiro di qua non la tiro di là. Anche questa è un’immagine da superare perché non è una questione quantitativa, il problema è qualitativo. Cioè, come sto? Io posso essere connesso anche 24 ore su 24, ma se il mio atteggiamento è positivo, cioè io stamattina ho salutato i miei figli, ho fatto vedere a loro dov’ero, questo non è che toglie spazi, anzi mi aiuta a mantenere viva la relazione anche quando non ci sono, quindi è chiaro che si può abitare male questo spazio, ma in realtà non ci toglie niente, ci dà delle opportunità in più. Sta a noi saperlo usare. Quindi è da superare quest’idea del dualismo digitale, perché autentico-inautentico dipendono da noi, perché ogni nostra esperienza è insieme materiale e digitale. Quando io al matrimonio di mio figlio ho deciso che non volevo scattare nessuna foto con il cellulare durante la cerimonia, la mia presenza lì, anche se appunto ho detto no al telefono, era condizionata dal fatto che c’era. E quindi la mia pura presenza materiale, in qualche modo, deve fare i conti con la possibilità di un equilibrio diverso fra materiale e digitale, e questo è un dato della nostra esistenza. Giochiamocelo bene. Contro il dualismo digitale ha detto una parola fondamentale, a un punto di non ritorno, il papa Benedetto XVI nel suo messaggio per la 47ma giornata delle comunicazioni sociali: “L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani.” Non è quindi qualcosa di finto, ma qualcosa di molto reale, non è virtuale nel senso che non esiste in realtà, ma è molto reale. Una realtà diversa, una realtà smaterializzata, una realtà che contribuisce a favorire, questa è un’affermazione anti-deterministica, può contribuire a favorire, e ciò dipende da noi. Lo stesso Mark Zuckerberg, l’autore di Facebook, dice You have one identity – avete un’identità sola e siete gli stessi quando siete su Twitter, quando siete su Facebook, quando siete davanti ai vostri colleghi di lavoro; cioè il tempo in cui pensare che ci sono tante stanzette divise una dall’altra è finito, quello che loro chiamano context collapse, cioè il collasso dei contesti, non più la separazione tra gli ambiti, ma il fatto che noi siamo gli stessi in tutti gli ambienti in cui transitiamo sia quelli materiali che in quelli digitali. E anche Nicholas Negroponte dice che “la vita è una”. L’informatica non riguarda più i computer (un aspetto tecnico), ma riguarda tutta la nostra esistenza.
Il divario generazionale. Molti dicono: ma queste cose sono troppo lontane da noi, non impareremo mai, non ci capiamo niente, è meglio far finta che queste cose non esistano. In realtà, primo: non importa diventare smart, importa capire la logica dell’ambiente digitale, appunto di questo intreccio profondo con la materialità. La seconda cosa, l’ha detta ancora Negroponte: all’inizio ci sarà questo gap, ma questo gap è destinato a colmarsi con il tempo, infatti chiedete ai vostri ragazzi quanti genitori sono su Facebook, su Instagram, su WhatsApp, anche troppi! I nonni usano Skype per vedere i loro nipoti. Quindi, questo divario si sta riducendo ed è importante un’alleanza intergenerazionale in cui i giovani aiutino i più anziani a familiarizzare. Anticipo, sempre con una citazione di Negroponte: ‘ogni problema globale ha una soluzione che viene dall’educazione. E in molti casi la soluzione è l’educazione stessa’.
Identità e relazioni.
Abbiamo a disposizione dei modelli che sono poverissimi, e anche ingannevoli.
Come per esempio il Self-made man. Noi sappiamo che i man, l’uomo e la donna, non si fanno da soli ma sono “fatti” anche se uno non crede a niente, quanto meno da un padre e una madre. Il padre può anche non esserci, ma la madre c’è. Ciascuno di noi in mezzo alla pancia ha un segno che ricorda che noi siamo relazione, prima che individuo. Che noi non esisteremmo se non ci fosse una relazione che precede il nostro essere individuo. Quella del self-made man è un’ideologia contraddetta dai fatti. Secondo me, un’icona molto bella che uso sempre è una statua di una scultrice irlandese, Bobbie Carlyle, che fa vedere il paradosso dell’uomo che si fa da solo. Perché se davvero ci facciamo da soli, chi gli ha dato il martello a questo pezzo di materia che si sta auto-plasmando, e chi ha tirato fuori questa materia dalla cava, come ha fatto a prendersi il martello, se manco aveva le gambe?. Quindi, il self-made man è veramente un’ideologia paradossale, perché non è ideologico che noi siamo relazione, è ideologico che noi siamo individui che costruiscono relazioni, perché noi, tutti noi, atei e credenti, siamo nati da una madre e non ci siamo fatti da soli. E dobbiamo essere grati di questo e non sentirci umiliati, far finta che questa cosa non abbia importanza. L’individualismo in realtà è estremamente conformista. Lo diceva un sociologo marxista tra l’altro, chi dice che fa quello che gli pare in realtà fa quello che fanno tutti gli altri. Provate a vedere se non è così. Miguel Benasayag ha scritto questo libro bellissimo, “L’epoca delle passioni tristi”, e ora ha scritto “Oltre le passioni tristi”. È uno psicanalista, e dice una cosa molto giusta: “è un mondo in cui individui serializzati vivono senza poter essere toccati da qualcosa al di là del loro io, saturato dall’immediatezza” – viviamo della contingenza. Per questo è bello essere qui, perché noi viviamo nella memoria, nella gratitudine per una memoria che poi ci apre un orizzonte di responsabilità. Mentre essere saturati dall’immediatezza, dall’emergenza è qualcosa che ci depriva dalla possibilità di essere responsabili, ma anche attori della contemporaneità.
Un’altra immagine, un altro modello antropologico è quello del narcisismo. Non ci specchiamo più nello specchio, ma ci specchiamo nei nostri dispositivi. Il Papa Francesco ha detto una cosa molto bella nella sua enciclica Amoris Laetitia: “Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato, manipolato e abbandonato con la stessa logica”. Il narcisismo è una trappola, una trappola di autoreferenzialità in cui noi rimaniamo veramente imprigionati.
Un altro modello antropologico è quello del profilo, che è un po’ l’evoluzione della maschera. Noi assumiamo delle maschere nelle relazioni in pubblico. Erving Goffman, un sociologo, che senza dirlo si ispirava a Pirandello nei suoi “personaggi in cerca d’autore”, sosteneva che l’identità è qualcosa di neutro, che ci consente quindi di indossare tutte le maschere che vogliamo. Di giocare con le nostre identità. Quindi, il sé come un gancio, assolutamente impersonale, a cui appendiamo le diverse maschere. Quella che Goffman chiama “l’identità attaccapanni”. Che poi con queste maschere abbiamo tanti palcoscenici per recitare, per metterle alla prova. Cito ancora Benasayag: “L’individuo esiste sempre meno come persona dotata di un’interiorità (la maschera è ciò che è fuori, è l’interfaccia esteriore; se non c’è però un dialogo, un movimento tra il fuori e il dentro rimaniamo prigionieri della superfice), è sempre più come un insieme di moduli senza unità, un ‘profilo’. Quindi siamo passati dall’individuo della modernità al profilo della postmodernità. Un profilo fatto di dati aggregabili che noi lasciamo in rete, lasciamo al supermercato quando paghiamo con la carta di credito, che lasciamo quando facciamo glia acquisti, e quindi quando visitiamo tanti siti e poi vediamo la pubblicità in linea con i siti che abbiamo visitato. Noi non ci rendiamo conto, ma il Grande Fratello ci guarda e sa benissimo cosa facciamo, sa come cercare di indirizzare i nostri liberi pensieri. È il diktat del bio-potere postmoderno, di quel potere che cerca di lavorare sulle nostre vite senza che noi ce ne accorgiamo, anzi magari noi collaboriamo allegramente senza rendercene conto, e ci dice: “non essere come sei” o meglio “sii il meno possibile… per meglio diventare gelatina plasmabile”. Da qui emerge la figura dell’uomo senza qualità che meglio si adatta a questo sistema. Papa Francesco nell’Amoris Laetitia dice invece una cosa importantissima, che più noi viviamo nella concretezza delle relazioni, meno riusciamo a mantenere queste maschere e quindi è la relazione che ci provoca l’autenticità in qualche modo. Questo accade nella famiglia, ma accade anche nell’associazionismo scout, dove condividi situazioni in cui le maschere ad un certo punto le getti, perché nell’essenzialità, nella fatica del cammino non è che ci ricordiamo sempre di recitare la persona che abbiamo in mente. In questo senso mi pare molto bella la cosa che dice uno dei filosofi miei preferiti, che è Paul Ricoeur “gli altri sono i custodi della nostra identità” e in qualche modo ci aiutano a ricordarci chi siamo, a mantenere fede alle nostre promesse. Ci dicono “non far finta di essere quello che non sei, perché so benissimo che questo non è il tuo vero volto”.
Tornando ai modelli che abbiamo intorno, il Quantified self è una delle punte emergenti di questa nuova antropologia ispirata dall’individualismo, che si esprime attraverso la rete. Noi siamo la somma dei dati che ci caratterizzano. Adesso con i nuovi dispositivi, ad esempio con il nuovo Iphone, io ogni volta che uso l’Iphone di mio marito mi misuro i battiti cardiaci, possiamo registrare le calorie che bruciamo, i pasti che facciamo, la variazione del nostro ritmo cardiaco. Registrare il ritmo cardiaco per mandarlo alla persona amata, per fargli sentire quanto batte il nostro cuore quando lo pensiamo. Questo significa che tutto ciò che non è quantificabile è come se non esistesse più, avesse perso valore. In questo mondo che va in questa direzione, non è che ci obbliga a essere cosi, non siamo deterministi, però se noi ci infiliamo nella corrente, la corrente va questa parte. Per questo sono importanti, lo diceva McLuhan, i contro-ambienti: è importante avere luoghi in cui vedere con uno sguardo diverso, avere un punto di vista differente. E lo scautismo è un grandissimo contro-ambiente, come lo è la famiglia, come lo è la fede. Sono tutti luoghi di libertà, in cui noi possiamo staccarci dal flusso e guardare con occhi diversi. Questo poi è l’educazione. Ci sono tantissime nuove fragilità dei giovani che sono legate a quest’andamento e sono appunto fragilità che li portano ad esasperare per esempio la presentazione di sé in rete, se non sono un po’ eccessivo nessuno mi mette il “like”, nessuno mi nota, a non tollerare il silenzio digitale, se mando un messaggio e nessuno mi risponde vado in ansia, se uno ha visto il mio messaggio su WhatsApp e non ha risposto, gli chiedo perché non ha risposto e mi arrabbio. Tutta una serie di nuovi meccanismi, che scattano se non abbiamo la consapevolezza che tutto non è riducibile a questo. Un’altra fragilità dei giovani è la paura di essere tagliati fuori – “Fear of Missing out” – sto sempre connesso per paura di perdermi qualcosa di fondamentale, e in questo modo mi disconnetto poi dalla realtà che ho di fianco. Non è colpa dei dispositivi, spesso ci disconnettiamo anche senza che ci sia bisogno di dispositivi digitali. Un papà che legge il giornale e poi il figlio gli chiede “papà-papà-papà!”. La disconnessione non è colpa dei cellulari, perché noi sempre abbiamo cercato delle comode vie di fuga dalla relazione. L’autismo tecnologico è un rischio. Lo dice molto bene il Papa nell’Amoris Laetitia: “Non si possono ignorare i rischi delle nuove forme di comunicazione per i bambini e gli adolescenti, che a volte ne sono resi abulici, scollegati dal mondo reale”. Questo “autismo tecnologico” li espone più facilmente alla manipolazione. Non è che fanno questa cosa brutta, invece di fare cose belle, il problema è senza gli ambienti critici finiscono poi per essere manipolabili. Questa manipolabilità espone anche alla cultura del provvisorio, per cui trattiamo poi le persone e le cose come trattiamo i messaggi che troviamo in rete, come se ci potessimo connettere e disconnettere facilmente, cancellare le cose che non ci piacciono – e questo espone a una cultura del provvisorio che invece un’associazione che festeggia i 40 anni, per fortuna, contrasta.
Cosi come la connessione tecnologica non produce relazione, ma neanche la impedisce, dunque non c’è determinismo, bisogna evitare di scambiare la connessione per la relazione attraverso l’incontro, dunque la dimensione antropologica della nostra comunicazione. Le due cose non sono in conflitto, ma non sono nemmeno la stessa cosa. Papa Francesco nella Lumen Fidei dice: “la persona vive sempre in relazione: viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande dell’incontro con altri”. Gli altri dunque non sono l’inferno come dice Sartre, ma sono la sua salvezza, se manteniamo la consapevolezza dalla centralità della relazione, con tutte le sue fatiche. Perché ogni cosa bella costa, e questo la rende preziosa: dal camminare su una strada difficile al partorire un figlio, allo scrivere un libro. “Uscire dall’intersoggettività (e qui cito ancora Benasayag) è invece la condizione per sviluppare delle traiettorie nella ripetizione e della distruzione”. E tanti problemi dei giovani, dall’anoressia all’uso di alcol fino al suicidio, sono legati proprio a questa patologia della relazione, dove tanti si trovano soli appunto perché manca l’educazione alla bellezza dell’educazione, mentre l’educazione all’esaltazione dell’autonomia dell’individualismo alla fine lascia esposti, soli e fragili.
Il rapporto con l’altro è fatto di concretezza, lo dico da madre che ha allattato per cinque anni della sua vita, portato in pancia i propri figli per nove mesi per cinque, questa fisicità della relazione con l’altro è indispensabile, il contatto – Papa Francesco l’ha detto a proposito del povero, ma vale per tutti: se non lo hai toccato non l’hai incontrato, quindi questa dimensione tattile visto che noi siamo soggetti incarnati situati in una storia ma prima di tutto in un corpo. Entrare in contatto con l’altro e attraversare la fatica di questa relazione – io sono sposata da 31 anni, sono contenta di essere sposata, ma è una fatica, ribadire le promesse fatte quando avevo 25 anni, quando ero una persona completamente diversa da quella che sono adesso, quindi c’è tutta la fatica e la bellezza di rimotivarsi – non c’è niente di scontato nelle relazioni autentiche e la tenerezza è il linguaggio che aiuta, perché noi pensiamo che tutto si risolva con la discussione con il dialogo, ma molto spesso si supera con l’abbraccio, con un sorriso senza dover convincere l’altro delle proprie ragioni, attraverso un gesto di accoglienza a prescindere dal fatto di essere d’accordo, di stabilire chi ha ragione. In questo senso i media digitali possono aiutare a venire incontro. L’esserci come condividere è un modo di pensarsi, pensando anche ad altri. Il fatto che anche un gesto narcisistico come un selfie può diventare un messaggio, come fa Papa Francesco per dire: sono con voi, sono dalla stessa parte dell’obiettivo, quindi sono uno di voi in qualche modo, siamo tutti insieme.
La crisi dell’educazione
La crisi dell’educazione non è colpa del web. Non è che i ragazzi non stanno più attenti a niente perché sono abituati alla velocità. Un po’ sì, ma anche perché noi siamo abituati al modello broadcasting: c’è l’emittente, l’educatore che dice dei messaggi intelligentissimi e informativi, e se gli adolescenti non li ascoltano è colpa loro. No! È colpa nostra. Perché abbiamo in mente un modello che non funziona più, dire cose edificanti forse non è il modo migliore di educare. L’educazione che cos’è? Etimologicamente è un’uscita. ‘Non si educa senza uscire’ (Papa Francesco). Prima di tutto da se stessi, poi dai luoghi comuni, che ci fa tanto comodo ripetere, ma dobbiamo se non altro ri-interrogare alla luce delle nuove sfide. Quindi non è non é in-ducere, cioè cacciare nella testa delle persone cose nuove, né se-ducere, venite con me che vi porto io, un po’ di seduzione ci vuole, nel senso che uno dev’essere credibile, riuscire a ottenere un credito di fiducia – seduzione in senso buono. Però e-ducere è un’altra cosa, in tanto c’è un tirar fuori, un elemento maieutico. De Certeau parla dell’ermeneutica del senso nascosto – ogni giovane ha dentro di sé delle cose meravigliose che non sa di avere, e l’educatore prima di tutto lo aiuta a farle nascere, a tirarle fuori. Prima di tutto è un tirar fuori da sé, poi è un portar fuori (dai luoghi comuni, dal dato di fatto) e poi è un condurre verso, ducere anche nel senso di guidare, e poi non è ripetizione. Un’autorità, voi avete i capi, perché la simmetria è diseducativa, esiste solo nelle scienze matematiche, nelle scienze costruite dall’uomo. Le relazioni sono sempre asimmetriche, è questo è una sfida. A chinarsi verso chi è più debole invece che a dominarlo. L’autorità è quella che autorizza, non semplicemente mantiene il proprio ruolo di guida ma educa, consegna, fa crescere altri perché poi a loro volta possano far crescere altri. Rende autori i soggetti che vengono educati, c’è una componente di trasmissione nel senso di passare il testimone. C’è un’affermazione nella Laudato sì al numero 16 (e ovunque) che è fondamentale: “tutto è connesso”, che è un’affermazione ontologica, antropologica e teologica – e non tutto è connesso perché “c’è campo”, ma al contrario – la rete funziona bene perché valorizza questa connessione che già esiste, e va valorizzata nell’educazione. Lo diceva James Hillman, lo psicanalista, nella bellissima lettera agli insegnanti italiani, la scuola, la strega cattiva che separa i due fratellini Hansel e Gretel che sono insegnare e imparare, dividendo i ruoli tra chi insegna e chi impara e invece nello scautismo, come nella famiglia, come nella vita, insegnare e imparare stanno insieme, appena un bambino piccolo impara qualcosa la vuole insegnare a qualcun altro, e così anche nello scoutismo i grandi insegnano ai piccoli, i piccoli insegnano ai più piccoli e s’insegnano tra di loro. Insegnare e imparare vanno insieme, insegnando s’impara. Ve lo dico io che insegno da tanti anni, quanto imparo anche dai miei studenti. Teoria e prassi, logos e pathos sono tutte cose separate che dobbiamo riconnettere. Imparare facendo e questo è un topos fondante del metodo scout. Ragioni su quello che stai facendo, allora sì che impari, quello che stai facendo diventa parte di te. Abiliti, autorizzi, dai la parola a chi poi dovrà prenderla in proprio. Insegni a qualcuno che poi sarà capo. Quello che lui sta ricevendo poi lo dovrà restituire con un’assunzione piena di responsabilità. Con-prendere non è come capire io nella mia testa, ma come comprendere insieme, come aiutarci a vicenda a capire. Il circuito generativo, una parola che mi sta a cuore, con Mauro Magatti abbiamo scritto un libro sulla generatività che non è solo biologica, ma che è quello che sta succedendo anche qui oggi, cioè, noi non siamo creatori, noi siamo ‘fecondati’ e quindi possiamo mettere al mondo, siamo ‘fecondati’ da una eredità di cui siamo grati e che dobbiamo rimettere al mondo, non semplicemente come se fosse un forziere di monete che nessuno deve depauperare ma rigenerare. Le cose vivono, le cose vive cambiano. La famiglia cambia, non è un modellino statico, pensate com’è diversa la mia famiglia rispetto a trent’anni fa quando ci siamo sposati, o 28 anni fa quando è nato il primo figlio. La famiglia cambia continuamente, e essere fedeli vuol dire accompagnare questo cambiamento, non vuol dire congelare tutto in modo che a nessuno interessi. La fedeltà esige il cambiamento. Naturalmente il cambiamento nella fedeltà. Io perché posso insegnare? Perché ho tanto studiato, perché ho avuto dei bravi maestri, perché ho tanto ricevuto – allora posso dare, posso far sì che quello che io ho ricevuto non si limiti a rendermi una persona tanto colta e informata, ma diventi occasione per abilitare altri. E questo è il circuito generativo: ricevere e dare, rilanciare l’eredità, mentre invece noi siamo una società arraffona che riceve, prende il più possibile e dà il meno possibile. Educare significa stare nella relazione: con gli altri, con il mondo e con Dio. Non è solo una trasmissione, ma un incontro. La dimensione relazione è fondamentale, non è un accessorio. Come prima immagine abbiamo messo l’abbraccio: non si educa fuori dalla relazione – perché altrimenti possiamo seguire dei bellissimi corsi online di scautismo, e sapremo tutto sullo scautismo, ma non è la stessa cosa. L’incontro, il condividere lo spazio e il tempo è fondamentale, cosi com’è fondamentale sentire che c’è un fuoco, una passione, un entusiasmo. Lo dice benissimo Mario Luzi, il poeta: ‘La conoscenza per ardore’, cioè non è soltanto un sapere intellettuale che noi trasmettiamo, ma è un valore, nel senso di qualcosa su cui vale la pena mettere la nostra fatica, la nostra energia, la nostra vita. Il valore è questo, non è un bell’enunciato che noi veneriamo, quello è un idolo, ma il valore è ciò che noi testimoniamo con la nostra vita. Per me la famiglia è un valore, grazie a Dio ho potuto farla. Quelli che parlano del valore della famiglia, poi ne hanno tre e si fanno gli affari loro, hanno duemila tate di tutti i paesi che crescono i loro figli – ecco, qui la conoscenza per ardore io non la vedo, vedo più un’ideologia.
Quindi, educare è sapere, perché noi trasmettiamo delle conoscenze, che ha un sapore, che è qualcosa che ci fa bene, che è buono, che ci fa crescere, che ci nutre, è la dimensione della “convivialità dell’educazione” che non è semplicemente un’operazione intellettuale – bisogna de-intellettualizzare – il metodo scout è preziosissimo, perché si vive insieme, si cammina insieme e cosi passano i valori e la conoscenza e la via relazionale è fondamentale. Ricomporre i ruoli, il grande insegna al piccolo, e insegna al più piccolo e ciascuno di noi impara e insegna. È l’interdipendenza costituente, cioè siamo tutti legati tra di noi e il tutto è più della somma delle parti. La squadriglia non è la somma degli individui ma è qualcosa di più, è una “reciprocità asimmetrica”. L’importante non è la simmetria che non esiste, l’equivalenza che è una proprietà astratta – l’importante è la reciprocità che il più forte si prende cura de più debole, chi ha di più da un po’ del suo a chi ha di meno, che il grande si china sul piccolo e si sente responsabile – c’è una reciprocità, un legame, non una presunta equivalenza che non esiste mai. Io non mi sento umiliato perché ho bisogno di te, ma mi sento grato perché tu mi stai aiutando. E questo è il circuito generativo, perché se io sono grato perché qualcuno mi ha aiutato sarò poi felice di aiutare qualcun altro che ha bisogno di me. Mentre, se io sono fiero di non avere bisogno di nessuno, ho bisogno che gli altri mi mettano “I Like”, ho bisogno che gli altri mi dicano quanto sono bravo e coltiverò questa mentalità individualistica che impoverisce il mondo. La gratitudine è un’eccedenza. Gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente diamo, magari diamo anche un po’ di più di quello che abbiamo ricevuto, se ci riusciamo. E si partecipa non prendendo la fetta della torta, ma contribuendo tutti, anche la persona con disabilità ha qualcosa da dare – è partecipazione attraverso la contribuzione. Quindi, nel nostro ambiente ‘misto’ tutto è connesso: il materiale è connesso al digitale, l’individuo è connesso agli altri nella relazione. E credo che questo paradigma della relazione sia lo sfondo della relazione educativa. “L’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse – dice Papa Francesco nella Laudato sì al n. 66 – la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra” Io credo che il metodo scout si riconosca perfettamente come traduzione educativa di questo paradigma della connessione.
Ci sarebbe un discorso da fare sul gender, qui non posso farlo, lo sto facendo in giro. Abbiamo impoverito il dibattito, molto è colpa anche dei cattolici secondo me, c’è una frase nella Amoris Laetitia al n. 56 che costituisce la base per ragionare in questa dimensione fondamentale, perché i giovani devono elaborare, stanno elaborando la propria identità sessuale, quindi un discorso sul genere è un discorso costruttivo e fondamentale “Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender) si possono distinguere, ma non separare”. Noi abbiamo l’ossessione che se distinguiamo allora separiamo, ma non è vero, cosi come distinguiamo materiale-digitale, ma non li separiamo perché sono intrecciati e questo ci aiuta a vivere serenamente. Noi abbiamo la dimensione biologica e la dimensione sociale-culturale – il mio essere donna, il mio essere madre è molto diverso da quello di mia madre e di mia nonna ma non perché io separo, contrappongo, ma semplicemente perché culturalmente io ho altri strumenti, altre parole, altre opportunità per esprimere la verità della mia dimensione biologica. Distinguere non vuol dire separare. Distinguere si deve, perché altrimenti scambiamo per naturale ciò che è culturale. In alcuni paesi arabi dicono che è naturale che le donne non studino, che è naturale che le donne non possano guidare la macchina, ma non è naturale, è culturale. E distinguere non vuol dire separare. È fondamentale un discorso sul genere, cosa vuol dire essere donna, essere ragazza, essere ragazzo oggi, quando ci dicono che è tutto uguale, che è tutto una questione di scelta. Dobbiamo distinguere nell’unità. Sarebbe come dire che Dio è Trino e distinguere e parlare di Gesù, Spirito Santo e Dio sarebbe separare, no! C’è un’unità imprescindibile dentro la quale noi distinguiamo. Maschio e femmina sono due simboli, costituiscono un’unità: Dio creò l’uomo maschio e femmina – sono due tessere di uno stesso mosaico, che è quello dell’umanità e sono due simboli nel senso che maschio e femmina sono due parole inesauribili, che contengono una ricchezza infinita e ospitano tutte le sfumature possibili, mentre noi siamo abituati al lessico scientifico fatto di termini univoci: ‘H2O vuol dire solo quella roba lì’, per cui ho bisogno che Facebook mi metta cisgender, transgender, mille termini che definiscono senza resto quella sfumatura di gender in cui io mi definisco. In realtà maschio e femmina sono due parole simbolo, che ospitano una ricchezza infinità di significati, che non hanno bisogno di etichette che precisino in maniera “rigorosa”. Dentro “femmina” ci sta tantissimo: la donna che si consacra, la madre, la donna che non può avere figli e vive la generatività in altro modo, la donna che ha difficoltà a fare i conti con il suo corpo. È una parola ricchissima, che va esplorata in tutta la sua ricchezza. Non abbiamo bisogno di etichette, di termini pseudoscientifici e dobbiamo solo esplorare questa ricchezza. Sono categorie ospitali, maschio e femmina. Nel Vangelo c’è un’infinità di sfumature di cosa significa essere donna: c’è Maria, c’è la vedova, Maddalena, Marta. Il Vangelo ci fa un discorso bellissimo sul genere femminile e questo va recuperato, perché i ragazzi ne hanno bisogno, di essere aiutati ad attraversare le difficoltà della loro fase. Questo un educatore lo deve fare, è una responsabilità a cui non sottrarsi. Poiché tutto è connesso, anche le generazioni ci aiutano a capire, perché se noi teniamo insieme … pensate che la maggiore delle mie figlie è nella nazionale femminile di rugby, vedete me, sono l’antisportiva per eccellenza, il suo è un modo di essere femminile diverso dal mio, diverso da quello di mia madre che non ha mai lavorato in vita sua o da quello di mia nonna che invece ha fatto la mondina – tenere insieme le generazioni, aiutare a capire come la femminilità, la mascolinità sono cambiate. Cosa di bello abbiamo ereditato. Che nuove opportunità abbiamo. E questo è un discorso sul genere e lo dobbiamo fare, fuori degli schematismi assurdi della cultura contemporanea che ci dice – o sei per il gender o sei contro il gender, e quindi non devi nemmeno nominare la parola. No, noi sappiamo che la cultura è importante, che noi abitiamo l’ambiente culturale, e che dobbiamo educare questo ambiente culturale – parlargli di cosa vuol dire essere uomini e donne oggi, senza separare, perché noi siamo incarnati in un corpo, e questo corpo ci dice qualcosa di noi, senza dire che da questo corpo derivino deterministicamente certi comportamenti.
È un discorso importante, scusate l’enfasi. Educhiamoci a farlo! Trasfigurare l’educazione – queste sono le vie di Firenze – secondo me è il metodo scout – uscire, annunciare, educare, abitare e trasfigurare – i 5 verbi del Convegno Ecclesiale di Firenze – aiutano a trasfigurare l’educazione mescolandoli e io credo che il metodo scout mescoli benissimo perché educa camminando, perché è un modo di uscire, usciamo dalle nostre comode case, usciamo dalle strade battute, dormire in una tenda annuncia che si può vivere con semplicità perché ci stai tu là, nella fraternità, potete combinare come volete, qui sono soltanto alcuni esempi – il metodo scout secondo me è una sintesi bellissima di quanto educativo è il percorrere e intrecciare queste cinque vie. Credo che la fraternità sia insieme il medium e il messaggio dell’educazione. Il medium perché non si educa nella relazione asettica, si educa in una relazione che ha a cuore l’altro. Che pensa che l’altro non è soltanto il ricevente del mio messaggio, ma è anche chi mi può rigenerare come educatore, cosi come i figli mi mettono al mondo come madre. La fraternità ci dice che tutti i fratelli sono diversi, e non è che devi dare a tutti la stessa cosa. Perché in un momento uno ha bisogno di più tempo e un altro non ha bisogno di tempo. Quindi, la giustizia non è dare a tutti la stessa cosa, e questo s’impara nella famiglia. Tutti si rendono conto di chi ha più bisogno e volentieri danno di più a chi ha più bisogno. Questa è la fraternità, che nutre alla comunione, che ci aiuta, che educa all’eccellenza, al decentramento, al non essere tutto intorno a te. Ci sono dei brani bellissimi della Amoris Laetitia sul tema della fraternità, che non è mai stato adeguatamente tematizzato. Quando si parla della famiglia si parla dei coniugi, dei loro problemi, divorziati, risposati, ma i fratelli? I figli? La fraternità è un luogo di educazione fondamentale a una società che non sia individualistica. Questo è un pezzo della Evangelii Gaudium che secondo me è bellissimo: “Il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica” – mistico, potrei fare una lezione su cosa vuol dire mistico per Papa Francesco, ma è tutt’altro che astratto, mistico è il concreto, è il piccolo che traspare il grande, è il limitato dove si affaccia l’infinito “che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme” perché ci sono, si fa fatica a vivere insieme, però la fatica – lo sapete bene voi che camminate, io non ce la farei mai a fare alcune cose, alcune camminate, ma la fatica si può affrontare a certe condizioni, perché a certe condizioni è bella e ci fa bene, ci fa crescere – “aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro padre buono”. E poi vorrei aggiungere due citazioni rivolte all’Agesci, ma rivolte al metodo scout in generale: “della bontà e saggezza del metodo scout, basato sui grandi valori umani, sul contatto con la natura, sulla religiosità e sulla fede in Dio”; “un metodo che educa alla libertà nella responsabilità” – ne sono proprio convinta, tutti i miei cinque figli, e pure il sesto sono negli scout.
Mi raccomando di mantenere vivo questo fuoco, questa missione, questa capacità di dialogo, che non è semplicemente una schermaglia, una dialettica tra due posizioni, ma la capacità di fare unità, di fare ponti, in questa società dove c’è l’abitudine di fare muri. Ed è bellissimo che possiamo dire questa cosa oggi, quando il Papa fa un grandissimo ponte andando all’isola di Lesbo.
(*) trascrizione della registrazione dell’intervento
Lo Scautismo cattolico in Italia: un bilancio, una prospettiva pedagogica
Professoressa Paola Dal Toso – Facoltà di Scienze della Formazione all’Università di Verona.
Grazie a voi per quest’invito e rinnovo gli auguri di buon compleanno. Se quarant’anni di fronte all’eternità non sono niente, in educazione non sono poca cosa. È bello e importante poter fare memoria. In questo senso cerco di offrirvi un contributo per punti, un po’ per flash rileggendo, sia pure in modo veloce e molto sintetico, i 100 anni di proposta scout cattolica. E non possiamo non tenere conto della proposta educativa dal punto di vista dell’educazione alla fede, contributo anche da parte della nostra Chiesa italiana. Richiamo alcuni elementi che possono essere spunti di riflessione in termini di bilancio e di prospettiva, per un maggiore consapevolezza di quel tesoro che rappresenta la storia dello scautismo cattolico in Italia.
Quando Baden-Powell avviò l’esperienza scout nel 1907, non aveva certo in mente di formare un movimento, che è andato sviluppandosi oltre quelle che potevano essere le sue intenzionalità. Pur essendo protestante, B.-P. era profondamente convinto della necessità di educare religiosamente i ragazzi e invitava ognuno a seguire quella che è la propria fede. Se rileggiamo i suoi scritti, possiamo constatare come la dimensione religiosa della proposta scout sia forte. Potrei sintetizzare affermando che non può esistere uno scautismo “ateo”; sarebbe un tradire l’intenzionalità di Baden-Powell.
Per quanto riguarda l’iniziale diffusione dello scautismo in Italia, vanno ricordate le forti critiche mosse da numerosi giornali, in primis “La Civiltà Cattolica” nei confronti della proposta educativa: l’accusa di naturalismo, la preoccupazione per il fatto che B.-P. fosse un protestante, che fosse massone e quant’altro… Nel frattempo la proposta scout si va diffondendo, nel 1912 nasce il Corpo Nazionale Giovani Esploratori. Poiché in questa proposta non c’è possibilità di partecipare alla celebrazione della santa Messa, sembra venir meno la dimensione religiosa, il mondo cattolico, rendendosi conto che la proposta scout attira numerosi ragazzi e può essere un interessante metodo educativo, comincia a rivedere le proprie perplessità e a ipotizzare di dar vita allo scautismo cattolico. Viene incaricato Mario di Carpegna, allora Presidente dalla FASCI (Federazione Associazioni Sportive Cattoliche Italiane), risorta nel secondo dopoguerra colla denominazione di Centro Sportivo Italiano (CSI). Va ricordato che nei primissimi anni del Novecento, la Chiesa era stata contraria alla pratica dello sport, ma rendendosi conto che può essere anche un’interessante proposta per educare ragazzi e giovani, avvia un associazionismo sportivo cattolico, la FASCI, appunto. Mario di Carpegna, invitato a verificare di persona la validità dello scautismo e la fattibilità di uno d’ispirazione cattolica, e si reca in Gran Bretagna; ne riferisce al Consiglio della Gioventù Cattolica Italiana. Nei primi giorni del gennaio del 1916 nasce lo scautismo cattolico, potemmo ritenere, promosso dai nostri “cuginetti” dell’Azione Cattolica.
Contribuiscono allo sviluppo dello scautismo cattolico la bella figura di Mario Mazza, ma soprattutto Mario di Carpegna, che gode della stima del papa Benedetto XV, appena eletto pontefice, che lo nomina Comandante della Guardia Palatina d’Onore. Lo affianca il padre Giuseppe Gianfranceschi, un padre gesuita, che di fatto diventa in pochi mesi l’assistente nazionale. Sarebbe interessante andare alle fonti dei loro scritti, riguardanti la dimensione morale dello scout, la Legge e la Promessa: leggendoli si sente una forte tensione educativa con una forte intenzionalità, con obiettivi di formazione cristiana. Il padre Gianfranceschi è uno stretto collaboratore del Papa, è uno scienziato, insegna alla Gregoriana, partecipa alla spedizione al Polo Nord, con Guglielmo Marconi dà avvio alla Radio Vaticana. Si potrebbe ritenere che il Papa affida a un suo stretto collaboratore l’ASCI, in modo da controllarla garantendo l’ortodossia della proposta educativa scout; d’altra parte, padre Gianfranceschi si appassiona allo scautismo e dà uno straordinario apporto allo scautismo. Dobbiamo riconoscenza e gratitudine a queste figure, così come a tutti quelli che nel volontariato hanno contribuito allo sviluppo dello scautismo sino a quando il regime fascista impone la chiusura. Oltre alle Aquile Randagie, ci sono una serie di esperienze di scautismo clandestino, poco conosciute, che a livello territoriale, continuano a esistere in maniera diffusa; ci sono anche scout che contribuiscono alla lotta per la liberazione dell’Italia.
Val la pena di richiamare la figura di Giovanni Battista Montini – papa Paolo VI, che è stato assistente scout. Non sono riuscita a documentare come abbia conosciuto lo scautismo, probabilmente attraverso il suo figlio spirituale monsignor Andrea Ghetti, che gli trasmette la sua passione per la proposta educativa scout. Insieme a Ghetti ci sono alcuni sacerdoti scout provenienti dalla Lombardia, che studiano a Roma e sono alloggiati presso il Seminario lombardo, che si trova vicino Santa Maria Maggiore: nel secondo dopoguerra offriranno contributi significativi come assistenti nazionali dell’ASCI e come futuri vescovi. Lo stesso Giovanni Battista Montini, come sostituto della Segreteria Stato, dà un contributo straordinario alla rinascita dello scoutismo cattolico. Nel momento in cui si va profilando la possibilità di riavviare l’associazione scout, gli ex dirigenti ASCI cominciano a darsi da fare, ma devono fare i conti con l’Azione Cattolica, con la figura di Luigi Gedda che vuole una rinascita dell’ASCI come settore della Gioventù maschile dell’Azione Cattolica. Si crea una situazione difficile, ma grazie alla mediazione di Montini, con il quale è in contatto soprattutto Mario Mazza, lo scautismo rinasce. Le prime riunioni vengono organizzate nell’appartamento privato di Montini in Vaticano, per garantire la sicurezza perché Roma aveva i problemi di tutto il resto dell’Italia. Montini si dà da fare, ad esempio, perché gli scout facciano domanda per acquistare del tessuto attraverso il Vaticano, por potere poi confezionare le camicie. Di fatto Montini è convinto della validità della proposta educativa scout, che ha una profonda dimensione spirituale.
Ci sono le pagine scritte da autori (Forestier, de Larigaudie) che poi vengono tradotte in italiano; per noi l’autore più noto è Giorgio Basadonna, a cui dobbiamo Spiritualità della strada.
Dal punto di vista storico, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, attraverso l’esperienza educativa con i ragazzi, l’ASCI favorisce un’originale e stretta collaborazione tra capi scout e preti. Al riguardo, famoso è il detto: “due teste sotto un unico cappellone” per indicare la fattiva sintonia d’intenti che caratterizza la relazione tra laici e sacerdoti, successivamente riscoperta ed ampiamente ribadita dal Concilio Vaticano II. Invece, il guidismo italiano presta molta attenzione alla Parola di Dio e alla liturgia, organizzando Squadriglie Nazionali e campi di specializzazione, anticipando in qualche modo il rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II.
Lo scautismo cattolico matura progressivamente la scelta di essere all’interno della Chiesa italiana e, quindi, di vivere con consapevolezza la dimensione ecclesiale. L’Agesci affronta le difficoltà sorte dopo l’unificazione dal 1974 al ‘76 nell’ottenere il riconoscimento della Conferenza Episcopale Italiana che stabiliti i criteri dell’ecclesialità, l’ha chiamata a definire la scelta religiosa del Patto Associativo. In quegli stessi anni nasce in Italia un’altra associazione scout cattolica: l’ Associazione Italiana Guide e Scouts d’Europa Cattolici. Matura in entrambe le aggregazioni la consapevolezza di operare all’interno della Chiesa italiana, di essere a servizio della Chiesa italiana, quindi ogni capo è chiamato ad essere annunciatore, un educatore alla fede.
Se da una parte ci possono essere difficoltà di inserimento nelle parrocchie, perché il parroco o qualche vescovo ha qualche pregiudizio nei confronti dello scautismo perché i capi non sono sufficientemente preparati o inseriti nella realtà ecclesiale, ci sono tutta una serie di esperienze positive che si traducono, oltre ad una collaborazione a livello parrocchiale o diocesano, anche nel riconoscimento della possibilità che all’interno della proposta educativa del gruppo scout si avviino cammini di formazione cristiana. Ci sono dunque gruppi dove l’iniziazione cristiana, la formazione ai sacramenti per esempio, con una serie di condizioni, viene affidata all’unità scout. Non affronto questo argomento, perché è una problema molto complesso, oggetto di attenzione anche da parte dell’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI, però, questo fatto dice la potenzialità della proposta.
Oltre alla proposta di educazione alla fede attraverso il metodo scout, rivolta in maniera sistematica, riunione dopo riunione, all’interno di una progettualità di gruppo, ci sono particolari occasioni associative ed ecclesiali che costituiscono potenzialità straordinarie, quali, ad esempio, la GMG, il Giubileo, un grande evento a livello nazionale, una route, un campo nazionale. Sono momenti forti che offrono opportunità eccezionali per sollecitare, per suscitare un cammino di fede, oltre a quello ordinario. Il problema sarà poi dare continuità a queste occasioni.
Lo scautismo e il guidismo sono ambiti educativi dove possono maturare vocazioni religiose, sacerdotali, episcopali: non disponiamo di elementi statistici, ma certamente nella misura in cui la proposta educativa è offerta in maniera autentica può effettivamente segnare la vita e le scelte della singola persona.
Nello stesso tempo, dobbiamo anche riconoscere i nostri limiti come educatori. Nel volontariato, in un certo senso, facciamo la guerra con i soldati che abbiamo. Sappiamo bene come nella realtà concreta non sempre i capi scout siano capaci, adeguatamente preparati. A volte ci capita di tappare i buchi per carenza di disponibilità, di fare i conti con le nostre miserie; ci sono capi in situazioni problematiche, e gruppi che non riescono a superare alcune difficoltà. Se comunque riusciamo a offrire una proposta scout autentica, nella fedeltà alle intuizioni di Baden-Powell e nella capacità di parlare un linguaggio che i ragazzi possono comprendere, possiamo incidere. Un capo può portare i ragazzi dove vuole, grazie ad un metodo che sa attrarre, sedurre. Se il capo, insieme agli altri, fa del suo meglio, fa in modo che i ragazzi siano affascinati perché trovano una persona che è interessata a loro in modo sincero. E ciò con tutto il rischio che questo può avere. Ma l’educatore scout può accompagnare a quell’incontro, che è solo lo Spirito Santo che può guidare, ma che può predisporre, può orientare, per aiutare bambini, ragazzi e giovani a scoprire ciò che da senso alla vita.
Qui ci sono tutta una serie di problematiche sul piano educativo. Nessuno può dare quello che non ha. La parola “educare” deriva da “educere”, che significa tirar fuori le potenzialità dell’educando e svilupparle al massimo. Ma l’altra derivazione etimologica, meno nota, è da “edere”, cioè alimentare, nutrire. I altri termini, I care, mi prendo cura di, alimento, dò da mangiare, ma non in senso materiale il panino o la pastasciutta, quanto piuttosto offro ciò che ha senso, aiuto a scoprire quei valori che aiutano a vivere, mi fanno capire, mi fanno toccare con mano che la vita vale la pena di essere vissuta, che è una bella avventura.
Sotteso è il problema della formazione degli educatori. Non racconto la giungla ai lupetti e alle lupette se non ne sono affascinato, se non colgo la poesia, se non ne sono innamorato. Così non posso parlare di Gesù Cristo se non ne sono innamorato.
E se anche un capo fosse ‘allergico’ a un discorso di fede, se è fedele ai ragazzi, se effettivamente si prende in carico quelli che sono i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro sofferenze, i loro sogni, non può non farsi carico del loro bisogno, della loro sete di Verità. Se effettivamente conosce ciò che sta nel cuore di Francesco, ciò che sta nel cuore di Chiara… Vi invito ora a chiudere gli occhi e ognuno si chieda: mi ricordo di che colore sono gli occhi dei “miei” ragazzi, di Francesco, di Chiara, di Matteo, di Lucia? Se voglio effettivamente bene a loro, non posso non farmi carico delle loro domande e tra queste c’è quest’esigenza naturale che è presente nell’uomo di oggi, così come nell’uomo primitivo, come nell’uomo che sarà in futuro: il bisogno profondo di dare un senso alla vita, di scoprire ciò che conta. In questo senso il farmi carico delle domande del ragazzo interpella innanzitutto me stesso. Allora, non è che il ragazzo educa me che sono educatore capo scout, ma il ragazzo diventa occasione perché io stesso mi metta in cammino. Sono chiamato ad essere educatore, quindi, “un pescatore di uomini”, ma non lo posso essere se non sono a mia volta un pescato, cioè non mi metto a mia volta in cammino e mi faccio pescare da Gesù Cristo.
È questa una questione molto delicata oggi, sulla quale occorre riflettere per riscoprire la nostra intenzionalità educativa. I capi vanno aiutati, non inventando chissà quali proposte e strumenti, ma aiutati a riscoprire l’intenzionalità educativa. Sappiamo quanto generosi siano, quanto dedichino tempo, energia, forze, soldi mentre potrebbero fare qualcos’altro. Vanno aiutati a una maggiore consapevolezza: i ragazzi ti guardano e tu sei un testimone e puoi esserlo solo se sei autentico, per poter lasciare un seme.
Occorre riappropriarci di alcune figure o contributi della nostra storia, che ci aiutano a riscoprire la profonda spiritualità, la dimensione religiosa del metodo scout, uno strumento di cui forse alcune volte non abbiamo consapevolezza. Lo facciamo vivere in un una realtà storica che non è facile, ma è assetata e lo constatiamo continuamente. Basta fare l’esperienza di una bella route: portare i ragazzi anche a far fatica, il che li aiuta a buttar giù la maschera, poi si rendono conto delle cose più semplici della terra: la relazione fraterna, il condividere un po’ d’acqua, scoprire che non ti puoi portare l’armadio di vestiti dentro lo zaino, devi invece metterci l’essenziale.
Dobbiamo riappropriarci della ricchezza della proposta scout nell’educare alla fede. Abbiamo delle responsabilità non solo rispetto al metodo, alla fedeltà ai valori scout ma credo anche nelle potenzialità che noi possiamo mettere a disposizione in ambito ecclesiale. La proposta non solo è attuale ma anche può rispondere in modo significativo a tutta una serie di domande che i ragazzi di oggi hanno e, quindi, possiamo offrire loro effettivamente un contributo. Occorre prendere consapevolezza.
Ad esempio: i nostri ragazzi non hanno fratelli. Pensiamo a quanto soli siano, vivono con adulti. Quanto bisogno hanno di sentirsi dire: “Ti voglio bene”; di fronte ad un ostacolo: “Ce la puoi fare!”, “Metticela tutta, forza”, “Coraggio, hai la mia fiducia”, “Conto su di te”. In Università incontro tanti ragazzi oramai più che ventenni, che esprimono questo tipo di esigenze. Trovarsi di fronte ad una persona che non è un fratello o sorella di sangue, una persona che è un volontario, che dedica gratuitamente della sua vita, del suo tempo, delle sue energie – mentre potrebbe fare qualcos’altro e a ciò sceglie di rinunciare -, offre una testimonianza di non poco conto. Immaginate due, un capo e una capo, che i bambini pensano stiano insieme ma poi scoprono che svolgono solo il loro servizio e cercano il bene dei ragazzi: è una testimonianza che lascia un segno anche rispetto alla costruzione delle propria identità, del proprio futuro, del proprio metter su famiglia. Tanto più le testimonianze sono autentiche, tanto più possono essere incisive.
Possiamo analizzare altri elementi della proposta educativa scout che possono contribuire a sviluppare prerequisiti, orientamenti che consentono ulteriori approfondimenti, cammini.
Da questo punto di vista vi auguro di tutto cuore di continuare crescere e di aiutarci a crescere in questo tipo di consapevolezza.
La proposta educativa degli Scouts d’Europa
Michela Bertoni, Marco Platania – Commissari Generali
10 parole che rappresentano il cambiamento e le prossime sfide della nostra associazione:
Fedeltà-Felicità-Accoglienza-Avventura-Intereducazione-Politeia-Rettitudine-Carattere-Famiglia-Bene comune
Introduzione
Un compleanno è sempre un momento in cui festeggiare, incontrarsi, condividere emozioni e momenti trascorsi insieme. Da adulti, poi, è anche un momento in cui siamo portati a riflettere su quanto fatto e su quanto occorre ancora fare. Se ciò vale per noi, ancor di più è importante per la nostra Associazione, soprattutto visto l’età che ha raggiunto. Quaranta anni è una bella età: è quella in cui cominciano a maturare semi piantati anni fa. È il tempo adatto che ti consente di guardare al passato con il distacco necessario per cogliere criticamente quanto di buono è stato compiuto, cosa poteva essere fatto meglio, ma anche per immaginare quali passi e quali strade l’Associazione sarà chiamata a percorrere. Abbiamo allora pensato di ricordare questo momento attraverso 10 parole, che hanno rappresentato (e che rappresenteranno, a nostro avviso) alcuni punti fermi su cui è stata costruita la nostra casa. Crediamo di aver scelto parole ci hanno contraddistinto nel panorama sociale, cattolico e scoutistico nazionale.
Fedeltà
40 anni fa la nostra associazione è nata anche per una scelta di maggiore fedeltà al metodo, prendendosi i rischi di passare per antiquata e non pronta al cambiamento.
Questa scelta ha contribuito senza dubbio a costruire e definire meglio la nostra identità, la nostra proposta educativa ma ci ha soprattutto lasciato una grande lezione, da custodire anche per i prossimi 40 anni: che si può stare nel mondo anche senza subirlo, che possiamo capire e vivere con (non come) i giovani di oggi essendo per loro punti di riferimento saldi. Lo scoutismo di oggi e di ieri pone alla base di tutto la fedeltà alla Promessa, che la guida o l’esploratore chiede di pronunciare, e alla Legge scout.
In un mondo che, come ha sottolineato Papa Francesco nell’udienza generale del 21.10.2015, “affida esclusivamente alla costrizione della legge i vincoli della vita di relazione e dell’impegno per il bene comune”, lo scoutismo affida lo stile delle sue relazioni all’onore ed alla lealtà.
Nello scoutismo questi valori sono necessari perché la proposta educativa abbia un senso, perché ad essa la persona aderisca con la massima libertà e quindi la possa sentire come una sua scelta.
L’uomo e la donna della Partenza sanno che “l’onore alla parola data, la fedeltà ad una promessa, non si possono comprare o vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure custodire senza sacrificio”. Lo scoutismo oggi come ieri propone un percorso educativo libero, dove prima ancora della Legge vi è alla base la volontà di pronunciare la Promessa.
Felicità
La vera felicità […] è una forma di amore che diviene tanto più piena quanto più viene rivolta verso gli altri (B.-P., “La strada verso il successo”)
Baden-Powell nel suo ultimo messaggio agli scout scriveva: “Il Signore ci ha messo in questo mondo per essere felici (…). Il segreto della vera felicità sta nel far felici gli altri!
La felicità più autentica alla quale ci invita il nostro fondatore è quella non certo legata a trionfi o straordinarietà, ma risiede nella capacità di dare tutto ciò che già è in noi, e che per un motivo o per l’altro non ha mai avuto la possibilità di venirne fuori, alla luce del sole.
Il donarsi apre le porte ad un altro orizzonte: diventiamo padroni della nostra vita decidendo cosa farne, senza lasciare il nostro destino in balia di cucù e ciarlatani. Lungo la strada dello scoutismo ogni ragazza e ragazzo scoprirà che donando se stessi farà parte del progetto del Padre, diventerà parte della sinfonia eterna della creazione e questo cambierà per sempre la propria vita infondendole speranza e coraggio per continuare il proprio cammino, senza cedimenti e senza paure.
La felicità sarà scoperta nella tenda bagnata, nella strada che sale, nel grande urlo lanciato all’unisono, nell’accompagnare il proprio novizio alla promessa, nel sorriso della sorella e del fratello che il progetto di Dio ci ha portato a incontrare.
Accoglienza
La sfida dello scoutismo e di tutte le agenzie educative è formare giovani non solo in grado di tollerare (nel senso di sopportare) qualcuno di diverso, ma di costruirci qualcosa insieme senza che questo significhi essere LA STESSA COSA. Provando ad esprimerci con un’immagine, dobbiamo non solo credere che si possa stare nella stessa stanza ma che ci si possa stringere la mano. Questo valore – l’accoglienza – si costruisce in modo più forte proprio nel momento in cui un ragazzo o una ragazza stanno definendo la loro identità, sia fisica che psicologica: l’adolescenza. L’esperienza della squadriglia ti educa proprio a questo: è vitale non la sopportazione ma la collaborazione, il saper tirare fuori il meglio dell’altro perché ci sia una crescita per tutti (che in quel momento è anche identificata come la possibilità di dormire sotto una tenda, di avere un pasto cucinato, o la vittoria durante un gioco). La scelta fin da subito di adesione ad una Federazione Europea porta con sé la sfida non solo di accogliere idealmente l’altro, ma di riuscire a stare assieme, ciascuno con le proprie differenze, nel dialogo.
Avventura
In ciò che per lui [il capo] è un semplice frutteto dovrà invece vedere una foresta popolata da Robin Hood con i suoi allegri compagni. In ciò che gli sembra un comune porticciolo egli deve riconoscere i mari della spagna con i loro pirati e corsari. Persino il parco municipale può divenire una prateria popolata da bufali e da indiani! (B.-P., “Taccuino”).
Lo scautismo è avventura, esplorazione, conoscenza della natura. La vita all’aria aperta, con le sue svariate possibilità, costituisce l’ambientazione ideale in cui il ragazzo possa sviluppare concretamente le sue abilità ma soprattutto dove egli impara a percepire il senso dell’innaturale. E questo spirito appare sempre più necessario – una sfida, potremmo dire – in una società che spesso presenta come modelli di avventura il consumismo, la strumentalizzazione della persona, l’alienazione, l’apparire piuttosto che l’essere.
Ma la vita all’aria aperta va vissuta nella sua interezza, va pienamente vissuta, con il bello o cattivo tempo, accettando ogni sfida: non è difficile cogliere l’ennesima allegoria presente nella metodologia scout. Il buono e il cattivo tempo…. lo si affronta con adatto equipaggiamento. La donna e l’uomo della partenza arrivano equipaggiati per affrontare l’instabile tempo della vita, avendo gusto a impegnarsi fino in fondo.
La vera avventura è supportata da grandi ideali, è lo spirito dei santi e dei profeti, è lasciare il sicuro per il probabile, è saper guardare oltre l’orizzonte…
Intereducazione
Dopo 40 anni, la scelta educativa degli scout d’Europa crediamo sia una stata una scelta profetica e da rispettare: le differenze fisiche si riflettono sul carattere, sul modo di vivere le relazioni, sul modo di giocare, sui tempi della persona. Uno spazio al maschile ed al femminile è uno spazio da custodire e almeno non da cancellare, per le famiglie che lo sostengono e lo desiderano per i loro figli. Per noi nascere in un corpo maschile o femminile è una risorsa, un’opportunità che poi diventa dono, non è qualcosa di cui avere timore. La guida diventa GENEROSA, cioè impara a fare spazio nella propria vita, l’esploratore scopre una tensione naturale ad essere CAVALLERESCO, cioè a proteggere qualcosa o qualcuno.
Papa Francesco, sempre durante un’udienza, ci ha messo in guardia da una proposta culturale che è “l’espressione di una frustrazione che mira a cancellare la differenza perché non sa più confrontarsi con essa”.
La scelta degli scout d’Europa è stata quella di vigilare sul rischio di cadere in un’uguaglianza omologante, che appiattisce l’individuo, cercando invece di educare ad una uguaglianza nella differenza.
Politeia
In un paese libero è facile, ed anche piuttosto comune, che uno si consideri buon cittadino solo perché osserva le leggi, fa il suo lavoro, ed esprime la sua scelta politica, nello sport ed in altre attività, lasciando che «gli altri» si preoccupino del benessere della nazione. Questo è un concetto passivo del civismo. Ma cittadini passivi non bastano per difendere nel mondo i principi della libertà, della giustizia, dell’onore. Per far questo occorre essere cittadini attivi (B.-P., “Lo Scautismo per i ragazzi”).
La nostra associazione al momento della sua nascita ha fatto la scelta dell’apartiticità: ossia nella nostra associazione non è possibile svolgere militanza politica e contemporaneamente essere capi educatori. Al contrario noi crediamo che lo sviluppo della personalità deve essere promosso al di fuori di qualsiasi schematizzazione, in un rapporto educativo rispettoso dei principi di libertà, in grado di favorire un adeguato sviluppo dello spirito critico.
E questo è ancora più significativo in una stagione della nostra società in cui di fronte ad una crisi di fiducia indifferenziata nei confronti del sistema politico, è forte la tentazione di soluzioni taumaturgiche senza che vi sia la fatica del confronto, l’assunzione di responsabilità, la messa in atto di comportamenti volti alla tutela del bene comune.
Il riconoscimento degli uomini in quanto cittadini impone a noi cristiani una partecipazione attiva e critica volta al rispetto della dignità di ciascun cittadino. L’atteggiamento deve essere come di colui che sa discernerne. La politica intesa come impegno a difendere i diritti e la dignità dell’uomo non è una scelta facoltativa per i cristiani. Dobbiamo saperci compromettere in favore degli ultimi, di chi subisce ingiustizie, di chi è marginale. Essere educatori, in quanto scelta e stile di vita, non può non cambiare il modo con cui gestiamo tempo e denaro, le scelte di studio e lavoro, le amicizie e le relazioni. Ancor di più la nostra partecipazione alla Polis, che ci vede attivi verso il bene comune. Noi dobbiamo essere portatori di valori che trascendono la prassi partitica, che richiede comportamenti anche in contrasto con alcuni nostri principi. La donna e l’uomo della partenza sono testimoni credibili di strade alternative in grado di porsi in atteggiamento critico all’attuale pervasivo sistema economico e culturale.
Rettitudine
Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore […]. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore […]. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria (“Gaudium et Spes”, n.69).
Certo non consideriamo questa una aspirazione esclusiva degli Scout d’Europa, ma crediamo che questa meta, che parla dell’uomo e della donna della Partenza, si costruisca attraverso delle scelte via via più impegnative, anche più definitive, di fronte alle quali viene messa la persona nel cammino scout.
Scelte che non finiscono mai, che devono essere riconfermate ogni giorno, anche dopo la Partenza.
Nel percorso scout le bambine e i bambini sperimentano che è più bello giocare insieme che da soli: la relazione è fonte di gioia e fonte di vita. I ragazzi e le ragazze imparano facendo, con curiosità, vivono la competizione nel suo lato costruttivo e stimolante: è un sistema meritocratico quello scout, in cui chi si impegna viene riconosciuto dai suoi pari e diventa autorevole e servirà a loro nella vita come insegnamento a non cercare o aspirare alle scorciatoie per arrivare al successo, soprattutto quello professionale.
I giovani e le giovani si trovano ad affrontare le prime scelte vere e talvolta anche definitive (l’indirizzo di studi, per qualcuno il lavoro, lo stile nelle relazioni affettive): nel clan e nel fuoco essi si confrontano con la fatica del contemperare aspirazioni e ideali, concretezza e sogni, con quanto sia difficile essere non solo persone severe ma anche giuste ed appunto, rette.
Carattere
Per carattere equilibrato intendo una persona dotata di un modo di vedere calmo e pieno di buon senso tale da non essere trascinato da suggestioni e spaventi di massa, ma invece capace di conservare la testa, di guardare innanzi con coraggio ed ottimismo (B.-P., “Messaggio a un raduno di Incaricati Rover di contea”, Gilwell Park, 28-29 gennaio 1933).
Conservare la testa, dice B.-P.: in quel suo linguaggio così sempre asciutto delinea in poche parole non solo uno dei punti fondanti del metodo, ma anche una della qualità che deve avere lo scout. Il carattere è infatti uno dei 4 punti di B.-P. ma esso non deve essere inteso solamente come uno degli obiettivi dell’azione metodologica: esso è anche un passaggio necessario, per un divenire, per consentire l’esercizio della propria libertà. Siamo di fronte ad un metodo anti metodo! Per lo sviluppo del ragazzo dice infatti B.-P. che è necessario anzitutto trattarlo con libertà: egli vuole fare le cose… a noi tocca incoraggiarlo della giusta direzione, anche lasciandogli fare degli sbagli.
In fondo tutto parte dal primo articolo: lo scout considera suo onore il meritare fiducia.
Ed è ancora oggi sorprendente scoprire come B.-P. avesse visto nella relazione fiduciaria con gli altri la scuola del carattere per l’individuo, una scuola feconda anche nell’errore. La pedagogia dell’errore, per cui la libertà in cui viene lasciato da solo il ragazzo gli permette di scegliere e anche di sbagliare. E sui suoi errori egli costruisce un carattere più forte.
Come afferma don Ghetti, “Colto nelle sue linee vive e feconde, realizzato come personale esperienza e rivelato agli altri attraverso una vita in comune, lo Scautismo diviene traccia valida ed efficace per formare «uomini di carattere», cioè personalità precise e valide” (“Programmare Scout”, ed. Centro Studi ed Esperienze Scout B.-P)
Essere «scout» significa dunque una cosa precisa, con doti caratteristiche e caratterizzanti e con una consapevolezza del proprio ruolo personale che lo difende da facili suggestioni ambientali.
E in un percorso circolare di autoeducazione il carattere crea carattere, o come dice B.-P. “in ultima analisi il carattere dello scout riflette in larga misura quello del suo capo” (Taccuino).
Famiglia
“… alle famiglie riconosce la potestà primaria nelle scelte educative” (Norme direttive).
Certo quarant’anni fa le famiglie con cui ci si confrontava erano diverse.
La sfida oggi non è riconoscere alla famiglia la potestà primaria, è incoraggiarla ad esercitarla fino in fondo, ad essere non solo un contenitore affettivo ma anche ricordare che esso è anche il contenitore etico più importante. La nostra missione oggi è ridare alla famiglia fiducia in sé stessa e nelle proprie capacità di educare, senza scoraggiarsi o rassegnarsi rispetto a quello che ad un possibile pensiero che “tutti fanno così, anche se gli insegno questo poi crescendo vedrà altro”. La famiglia, lo sappiamo, anche quella più problematica, lascia un segno, anzi IL segno più importante nella vita del bambino. Quello che possiamo fare è renderli magari parte di una comunità di famiglie, che si sostenga a vicenda. Non è cambiare il soggetto educato (noi non educhiamo gli adulti ma i ragazzi) ma, nella consapevolezza che gli attori principali nell’educazione dei figli sono i genitori, li incoraggiamo a fare la loro parte, senza sostituirci a essi.
Bene comune
Io credo che all’ideale di Amor di Patria di chi per essa era soprattutto pronto a combattere e a morire (e tanti hanno combattuto, tanti sono morti) oggi si debba sostituire l’ideale di chi per essa sia soprattutto pronto ad operare e a vivere (e questi purtroppo non sono tanti). Il nostro pensiero riverente e riconoscente va ai generosi che hanno amato la Patria fino a dare la vita, perché essa fosse fatta come va riconoscente ai cittadini onesti, ai dirigenti fedeli, agli impiegati diligenti che la conservano santa: il servizio degli uni è (nel quadro della Provvidenza) uguale a quello degli altri (Pietro Paolo Severi, “Estote Parati”, 1967, n. 13, pp.136-138).
Il nostro movimento, nella formulazione originale di B.-P., nasce non solo con l’obiettivo di migliorare genericamente la qualità dei singoli cittadini, ma anche di contribuire allo sviluppo del civismo, dell’attaccamento alla comunità e del bene comune. Secondo le parole di Benedetto XVI nella Lettera enciclica “Caritas in Veritate”, il bene comune è “il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi che si uniscono in comunità sociale.
Non è quindi un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene.
Proprio per questo, nell’applicazione della nostra metodologia, noi cerchiamo di dare ai ragazzi una prospettiva di futuro, per la quale vale la pena impegnarsi da subito. Cerchiamo di offrire loro prospettive che poggino su relazioni stabili e durature. La vita di gruppo che viene sperimentata nelle squadriglie né è un esempio: i ragazzi comprendono che esiste un bene del gruppo che supera il bene del singolo, e questo lo apprezzano anche nelle cose più piccole come decidere dove piantare una tenda, come costruirsi un riparo, o perché portare l’acqua per cucinare all’uscita di reparto.
Nella nostra metodologia, l’educazione al bene comune si articola in diverse attenzioni educative: la capacità di discernimento, l’analisi delle proprie azioni, l’autoeducazione, la compartecipazione alla responsabilità comune mediante il sistema del piccolo gruppo e infine attraverso la scelta del servizio.
Conclusioni
Nella società di oggi, contrassegnata da tanti elementi critici, da grandi cambiamenti e da profonde lacerazioni, da contrapposizione fra culture e religioni, il nostro compito è quello di progettare e interpretare il futuro leggendo i segni della realtà presente.
La nostra Associazione deve essere quel luogo che fa del futuro il proprio principio, e per preparare al futuro deve utilizzare un metodo saldamente radicato nella tradizione ma che è applicato conoscendo il presente.
E questo nostro futuro ha un volto….ha delle braccia e delle gambe…cammina, gioca, corre, ride e piange… sono le nostre ragazze e i nostri ragazzi che il signore ci affida, verso i quali il nostro servizio offre radici e ali. Noi dobbiamo continuare a guardare i ragazzi, dobbiamo continuare con quell’Ask the Boy che B.-P. ci ha insegnato: solo così il nostro metodo e la nostra presenza sarà sempre attuale…solo così la nostra proposta non invecchierà.
“Ai ragazzi manca uno sfondo – scriveva B.-P. nella prefazione al Libro dei Capi – . Ebbene, noi abbiamo uno sfondo da dar loro ed è lo sfondo che Iddio ha provveduto per ognuno di noi: l’aria aperta, la felicità, l’essere utili agli altri”.
Slides Michela Bertoni, Marco Platania.pdf
SCAUTISMO E FEDE – Alleanza preziosa per un umanesimo integrale e trascendente
Alla luce di Educare alla vita buona del Vangelo, n. 5
Don Paolo La Terra – Assistente Generale
- Introduzione
Il quarantennale dell’Associazione è venuto a cadere al centro del decennio che la Chiesa italiana sta dedicando all’educazione, scandito e accompagnato dal documento dei vescovi “Educare alla vita buona del Vangelo” (EVBV).
In un percorso associativo connotato – fin dal suo inizio – da un forte senso di appartenenza alla Chiesa, dalla centralità della proposta di fede e da una responsabile obbedienza ai pastori, mi è sembrato importante scandagliare il documento dei vescovi per vedere se, come e quanto lo scautismo vissuto dalla FSE italiana sia in linea con le indicazioni affidate dalla CEI alle Chiese che sono in Italia.
Come si vedrà proseguendo la lettura, la riflessione si snoderà attraverso una vera e propria rete di “link” che, se approfonditi individualmente, farebbero venire meno la sinteticità di queste righe: la mia speranza è che possano essere un antipasto ghiotto per chi abbia il desiderio di continuare un successivo approfondimento a livello personale.
Sul piano metodologico, sarà seguito in modo sistematico EVBV, 5, che del documento dei vescovi è da considerarsi alla stessa stregua del portale nei nostri campi; ad ogni livello che ne scaturisce sarà affiancata una breve riflessione sul modo in cui il metodo scout della FSE – e, più in generale, lo scautismo cattolico italiano – raccoglie e realizza quanto sollecitato dai vescovi. Il corsivo è di chi scrive.
- La visione
Nella gestione strategica, la visione – come riporta Wikipedia – è la proiezione di uno scenario futuro che rispecchia gli ideali, i valori e le aspirazioni di chi fissa gli obiettivi e incentiva all’azione.
1.1. La Chiesa chiede…
Lo scenario futuro verso cui, nell’ambito dell’educazione, la Chiesa chiede di orientare i passi, si trova all’inizio di EVBV, 5:
Tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente. Ciò̀ comporta la specifica responsabilità̀ di educare al gusto dell’autentica bellezza della vita, sia nell’orizzonte proprio della fede, che matura nel dono pasquale della vita nuova, sia come prospettiva pedagogica e culturale, aperta alle donne e agli uomini di qualsiasi religione e cultura, ai non credenti, agli agnostici e a quanti cercano Dio.
1.2. Lo scautismo risponde.
L’uomo e la donna della partenza sono, nell’ambito del metodo scout, la realizzazione della visione di un umanesimo integrale e trascendente, con le caratteristiche peculiari descritte sopra: responsabilità, gusto della bellezza della vita, orizzonte della fede che diventa dono, proposta affascinante di una pienezza di vita che si apre a tutti, nessuno escluso. E questo nella differenza complementare del maschile e del femminile.
L’uomo e la donna della partenza sono i discepoli-missionari tanto cari a Papa Francesco, cresciuti all’interno di una alleanza educativa della quale, nella fase adulta della loro vita, sono chiamati a diventare frutto maturo, testimoni e continuatori.
- La missione
Nella gestione strategica – cito sempre Wikipedia – la missione all’interno di una organizzazione è il suo scopo ultimo, la giustificazione stessa della sua esistenza, e al tempo stesso ciò che la contraddistingue da tutte le altre.
2.1. La Chiesa chiede…
Proseguendo, il n. 5 di EVBV, afferma:
Chi educa è sollecito verso una persona concreta, se ne fa carico con amore e premura costante, perché́ sboccino, nella libertà, tutte le sue potenzialità̀. Educare comporta la preoccupazione che siano formate in ciascuno l’intelligenza, la volontà̀ e la capacità di amare, perché́ ogni individuo abbia il coraggio di decisioni definitive.
2.2. Lo scautismo risponde.
Nel solco dello scautismo cattolico italiano, l’Associazione privilegia un approccio educativo personalizzato nell’ambito di un contesto comunitario, attraverso i mezzi del metodo, sintetizzati nei quattro punti di B.-P. Tale approccio personalizzato, nella specifica pedagogia dell’Associazione, si esprime anche nella peculiare attenzione alla differenza di genere, che la connota metodologicamente.
Lo scautismo, riprendendo quanto P. Ruggi d’Aragona affermava nel convegno capi di rifondazione dell’ASCI dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel settembre 1945, ha una grande capacità integrativa, che si declina nell’attivazione di processi di interazione complementare con tutte le altre realtà educative (famiglia, Chiesa, scuola, lavoro, etc.), tesa ad affiancarsi ad esse sviluppando e valorizzando quanto queste ultime non sono in grado di curare adeguatamente (con particolare riguardo al versante fisico e pratico dell’educazione, peculiarità pressoché esclusiva del metodo scout).
Ma c’è di più: l’approccio educativo personalizzato proteso a educare alla libertà per operare scelte autonome ed impegnative, sottolinea la centralità della coscienza. Rifuggendo l’individualismo e la massificazione, lo scautismo – nella tensione di auto-educazione che lo contraddistingue – dà il suo valido contributo alla formazione di coscienze adulte e forti attraverso il tessuto di relazioni che si sviluppa nella vita comunitaria del piccolo gruppo.
- I valori e i mezzi
Una volta chiarite la visione e la missione, occorre specificare i valori e i mezzi attraverso cui queste si intendano perseguire.
3.1. La Chiesa chiede…
A questo punto, EVBV 5 prosegue con una citazione molto impegnativa, tratta dal n. 61 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes:
Riecheggia in queste parole l’insegnamento del Concilio Vaticano II: «Ogni uomo ha il dovere di tener fermo il concetto della persona umana integrale, in cui eccellono i valori dell’intelligenza, della volontà̀, della coscienza e della fraternità, che sono fondati tutti in Dio Creatore e sono stati mirabilmente sanati ed elevati in Cristo»
3.2. Lo scautismo risponde.
Nella visione della persona umana integrale, è abbastanza facile fare una caccia al tesoro, all’interno del testo conciliare citato, e scoprire che – senza forzatura alcuna – dietro l’intelligenza, si celano senz’altro l’abilità manuale e la salute e il vigore fisico; dietro la volontà e la coscienza si cela il carattere; dietro la fraternità, infine, il servizio del prossimo.
I quattro punti di B.-P., nessuno escluso!
È questa umanità compiuta a livello creaturale – “sognata da Dio”, per usare un’altra espressione cara a Papa Francesco – che nella luce della grazia si proietta verso l’elevazione redentrice operata da Cristo. Di modo che lo scautismo, vissuto e applicato correttamente in tutti i suoi aspetti, è già in sé proiettato verso la trascendenza della fede, alla luce di una autentica religiosità; non è il caso, quindi, di fare riferimento alla spiritualità come “quinto punto” di B.P. giustapposto agli altri quattro; ma della fede come istanza intrinseca e connotante che affiora, viene testimoniata e si trasmette attraverso i mezzi del metodo e la loro corretta applicazione, in modo intuitivamente occasionale e, al contempo, sapientemente occasionato.
Sulla base della precisazione di questa peculiarità, Mons. G.B. Montini – allora sostituto della Segreteria di Stato e più tardi Papa Paolo VI, adesso beato – intervenne direttamente affinché, nel momento della sua rifondazione dopo la seconda guerra mondiale, l’ASCI (come anche l’AGI) fosse ricostituita con una struttura associativa autonoma e separata rispetto all’Azione Cattolica, che voleva farne una delle sue costole.
- Lo stile
Nello sviluppo di EVBV 5, dopo il riferimento ai valori e ai mezzi, viene successivamente sottolineato anche lo stile con cui un autentico impegno educativo deve essere condotto, identificato nella speranza.
4.1. La Chiesa chiede…
Il testo di questa parte del paragrafo 5 è incastonato tra due importanti citazioni tratte dalla Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, scritta da Benedetto XVI nel gennaio del 2008:
«Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può̀ essere solo una speranza affidabile». La sua sorgente è Cristo risuscitato da morte. Dalla fede in lui nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità di amare. In questo noi individuiamo il contributo specifico che dalla visione cristiana giunge all’educazione, perché́ «dall’essere ‘di’ Gesù̀ deriva il profilo di un cristiano capace di offrire speranza, teso a dare un di più̀ di umanità̀ alla storia (…)»
4.2. Lo scautismo risponde.
Il percorso educativo che ha come esito l’uomo e la donna della partenza è costantemente attraversato dalla speranza, fondamento dell’Estote parati, che rende capaci di dare il famoso calcio alla “im” di “impossibile”. Come anche, la capacità di dare un di più di umanità alla storia, prende forma nell’impegno che B.P. ci ha lasciato a lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato.
Questa tensione, favorita e sviluppata dal metodo attraverso la sapiente intenzionalità educativa dei capi, raggiunge il suo compimento nell’incontro personale con Cristo, vero Dio e vero Uomo: utilizzando le splendide parole di Gaudium et Spes 22, il Concilio afferma: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione».
In questo respiro, l’uomo e la donna della partenza sono donne e uomini di speranza che, umanamente compiuti grazie allo scautismo e continuamente trasfigurati dal rapporto con Cristo e dalla grazia che ne promana, all’interno di esistenze significative, danno un di più di umanità alla storia.
- L’orizzonte
L’ultimo passaggio di EVBV 5, comprendente l’ultimo inciso della citazione dalla Lettera di Benedetto XVI, fa innalzare lo sguardo verso l’orizzonte, e oltre.
5.1. La Chiesa chiede…
Le ultime parole di Papa Benedetto, con cui si conclude anche il paragrafo che ha fatto da catalizzatore tematico a queste righe, sono:
«(…) e pronto a mettere con umiltà̀ se stesso e i propri progetti sotto il giudizio di una verità̀ e di una promessa che supera ogni attesa umana».
5.2. Lo scautismo risponde
Queste parole profumano di Legge e di Promessa, nell’anelito di andare oltre nell’amore.
Con l’aiuto di Dio, fare del proprio meglio, con gioia, per essere sempre pronte/i a servire.
Andare oltre nell’amore: capacità di trasgredire, nel senso etimologico del termine. Una santa trasgressione, che riempie la vita e la proietta verso un orizzonte infinito; non banale, inodore, incolore, insapore, annoiante e disumanizzante come le tante trasgressioni che incrociano oggi la vita di tante persone.
Andare oltre le paure e i luoghi comuni; andare oltre, per scoprire le periferie esistenziali dove Cristo si nasconde e – al contempo – si manifesta nel volto di chi ha bisogno del nostro aiuto; andare oltre verso relazioni autentiche, non banali, in cui nel nostro sorriso aperto e accogliente – con l’uniforme o senza, non importa – chi ci guarda possa scorgere quello di Cristo e sentirsi affascinato dalla gioia che ne promana; andare oltre la comodità narcotizzante di divani, smartphone, app e pay-tv, per riscoprire nel contatto con la Creazione, nella fatica, nell’esperienza del limite, nella condivisione e nell’essenzialità un trampolino che fa spiccare il volo verso un livello più alto e bello di esistenza. Oltre, appunto, verso un umanesimo integrale e trascendente.
- Conclusione
Giunti alla conclusione di questa riflessione, è emerso in modo chiaro che l’identikit consegnato dai vescovi alla Chiesa italiana in EVBV 5 corrisponde perfettamente alla donna e all’uomo della partenza, con le rispettive peculiarità, compimento pieno del cammino educativo vissuto nello scautismo della FSE italiana.
Da quarant’anni l’Associazione si muove su questa direttrice. Il fatto che l’autorevole parola dei Pastori ne confermi sia la validità che l’attualità ha un duplice valore: da un lato, testimonia che nei quaranta anni precedenti essa non ha corso invano, né in modo autoreferenziale; dall’altro che, con le radici ben salde in questa tradizione, ha tutti i requisiti necessari – con la specifica pedagogia che la contraddistingue – per andare oltre nell’amore, realizzando anche nel futuro la sua vocazione educativa, che si esplica in una integrazione armoniosa tra scautismo e fede.
Nella fedeltà al metodo scout e alla Chiesa.
Sessanta anni di UIGSE
Nicoletta Orzes – Presidente Federale UIGSE- FSE
Carissimi,
vi ringrazio dell’invito, anche a nome del Commissario federale Martin Hafner, dell’Assistente Federale Padre Boguslaw Migut e di tutto il Bureau federale.
Ringrazio ognuno di voi per il generoso servizio di capi dell’Associazione Italiana e per il dono del tempo che dedicate a rendere concreta la proposta educativa dello scoutismo dell’UIGSE-FSE, come ideale concreto basato sui valori evangelici e sullo scoutismo cattolico originale.
Vi ringrazio anche per la vostra testimonianza di donne e uomini che, nella Chiesa e nella società, hanno scelto liberamente il servizio come stile personale di vita.
Nel novembre 1956, per la festività di Tutti i Santi, si incontrarono a Colonia (Germania) un gruppo di giovani capi scouts tedeschi e a loro si unisce uno scout francese.
Questi giovani sono stati testimoni e vittime della guerra e della divisione dell’Europa e sono coscienti che la pace possa ancora in pericolo.
Questi scouts, cattolici e protestanti, vogliono uno scoutismo fedele agli insegnamenti di BP e che abbia una chiara connotazione cristiana, aperto alla dimensione europea e che possa riunire in una federazione altre associazioni nazionali autonome basate sugli stessi principi.
Nasce così la “Fédération du scoutisme européen” (FSE) che negli anni 70, in particolare dopo il 1975 e il pellegrinaggio a Roma per il Giubileo nell’Anno Santo, non sarà più solo una federazione di associazioni scout nazionali ma una comunità scout internazionale che nel 1976 diventerà UIGSE che riunisce associazioni di fede cattolica, rimanendo aperta ecumenicamente alle altre confessioni cristiane.
Questi giovani capi aggiungono un’importante novità nel testo della Promessa: la fedeltà all’Europa e, molto prima che l’Unione Europea adottasse la bandiera del Consiglio d’Europa, il simbolo con le dodici stelle d’oro sventola sui campi della FSE, perché in essa gli scouts d’Europa vedono in essa anche il simbolo della corona della Vergine Maria
L’UIGSE viene riconosciuta nel 1980 dal Consiglio d’Europa e nel 2003, attraverso il Pontificium Consilium pro Laicis, dalla Santa Sede come associazione di fedeli laici.
Dall’inizio degli anni 90, dopo la caduta del muro di Berlino, l’UIGSE ha vissuto il fermento e il desiderio di scoutismo delle giovani generazioni dell’Europa dell’est e la Provvidenza è venuta in aiuto nel promuovere e sostenere le nuove associazioni di quei paesi.
Oggi l’UIGSE-FSE riunisce 60.000 ragazze e ragazzi ed è presente in 20 nazioni europee e in Canada e con alcuni gruppi anche negli Stati Uniti.
Gli obiettivi dell’UIGSE sono chiaramente espressi nello Statuto Federale.
Vuole riunire in una medesima comunità di fede, di preghiera e di azione le diverse associazioni nazionali di Guide e Scouts d’Europa, il cui scopo fondamentale è di formare i giovani attraverso lo scoutismo tradizionale di Baden Powell sulle basi cristiane che sono i fondamenti della nostra comune civiltà europea. (art 1.1.1)
Al di là delle frontiere nazionali, l’Unione vuole creare una vera comunità di vita cristiana dei giovani dei diversi paesi d’Europa. Attraverso ciò essa intende contribuire ad una presa di coscienza della comunità dei popoli d’Europa, sviluppando nel contempo una sana cultura di tutti i valori nazionali che rappresentano le molteplici forme di espressione del nostro patrimonio comune (art 1.2.2) .
Crede al destino soprannaturale, personale ed unico di ogni uomo e rifiuta di conseguenza ogni concezione sociale che conduca a qualsivoglia fenomeno di massificazione o di collettivismo che sacrifichi l’uomo a favore della società. (art 1.2.5).
Vuole formare l’uomo di fede, figlio della Chiesa. (art 1.2.6)
Dà il primato alla vocazione di ogni cristiano alla santità. Uno Scout, o una Guida, deve vivere la sua Promessa, i suoi Principi e la sua Legge secondo le esigenze del Discorso della Montagna, vera carta di ogni vita cristiana. (art.1.2.7)
E’ convinta che l’educazione differenziata di ragazze e di ragazzi in unità distinte costituisca un punto essenziale della propria pedagogia. Il parallelismo e l’arricchimento reciproco delle due sezioni, maschile e femminile, consentono il pieno sviluppo delle attitudini e delle inclinazioni donate, nel piano provvidenziale, a ciascuno dei due sessi (art1.2.8).
In questo 2016, l’UIGSE-FSE celebra il dono della Provvidenza dei suoi primi 60 anni di vita con il passaggio di una “fiamma” tra le associazioni che ne fanno parte.
Un passaggio concreto, com’è tipico dello scoutismo, dalle mani dei ragazzi di un’associazione all’altra alla frontiera dei vari paesi .
E’ importante celebrare questo 60° anniversario.
Anche un’associazione, come la persona umana, attraversa diverse fasi della vita: dall’infanzia quando si è entusiasti e tutto sembra facile, all’adolescenza quando si scopre che il cammino è più esigente, fino alla maturità in cui è necessario conservare lo slancio della giovinezza per non invecchiare, consapevoli del cammino percorso.
L’UIGSE-FSE è adulta ormai, ma deve impegnarsi a conservare e accrescere ancora di più l’entusiasmo delle proprie scelte educative.
Nella vita di un’associazione gli anniversari sono molto importanti ed è importante celebrarli.
Vogliamo fare nostro in questo 60° anniversario lo stile che già Giovanni Paolo II indicò in occasione del Giubileo del 2000:
- Far memoria grata del passato: occasione per guardare indietro e riscoprire nuovamente le radici, perché nelle radici si nasconde la nostra identità di oggi, chi siamo; fa maturare nella consapevolezza delle scelte e conferma di essere sulla buona strada; rafforza l’identità.
- Vivere il presente con rinnovata passione: aiutare i giovani, con i mezzi dello scoutismo originale di Baden Powell, a crescere nella loro umanità e nella loro fede è per noi una missione affascinante; la passione educativa ci dà la gioia di servire i giovani nella scoperta del senso e del valore della propria vita, della propria vocazione umana e cristiana
- Guardare il futuro con speranza e fiducia: ogni anniversario dona nuova speranza per le sfide che dobbiamo affrontare e ci rinnova la fiducia nel Signore che sempre è stato accanto nelle conquiste spirituali e pedagogiche del passato. Egli ci conduce e ci guida e in Lui è la nostra fiducia per il futuro e per le sfide che ancora ci attendono.
I ragazzi e le ragazze delle nostre associazioni saranno coloro che con le loro scelte costruiranno l’Europa e il mondo di domani.
Per l’UIGSE-FSE questa sfida educativa:
– è ricerca delle proprie radici, della genesi della propria coscienza, apertura ai valori di tolleranza, spirito di collaborazione, comprensione
– è contributo a costruire una patria comune, carisma dell’unità, fondata sulla pace, al di là dello stile di vita individualistico, della recessione economica, della paura di perdere privilegi e identità
– è passione educativa nel trasmettere valori e punti di riferimento su cui i giovani possano scoprire l’entusiasmo di costruire la propria vita, di una solidarietà universale che richiede come condizione indispensabile autonomia e libera disponibilità di se stessi
– è consapevolezza che l’umanesimo cristiano, il rispetto della dignità della persona e la scelta pedagogica di educare al maschile e al femminile siano un dono prezioso che come UIGSE possiamo fare al futuro dell’Europa
Le giovani generazioni di oggi, più ancora che in passato, hanno bisogno di essere accompagnate nella loro crescita.
Dobbiamo dare loro una “bussola” che abbia 2 punti focali: Dio e l’uomo ed é’ fondamentale aiutare i giovani a scoprire Dio come alleato, come Padre.
Papa Francesco oggi ci dice che il servizio più importante è difendere la persona umana, la sua vocazione, la sua identità.
La sfida dello scoutismo cattolico oggi è trasmettere ai giovani, con molto amore e in modo paziente, i principi dell’antropologia cristiana, partendo dal fondamento sicuro che è Gesù Cristo, in comunione con la Chiesa e il Papa e leali ai suoi insegnamenti nelle nostre scelte educative.
L’UIGSE-FSE vuole rinnovare oggi celebrando questo 60° anniversario il suo impegno a:
- essere fedele alla propria missione educativa senza paura di offrire una proposta basata sulla fede e il Vangelo, perché i giovani vogliono proposte alte e chiare
- essere parte attiva nella vita della Chiesa amandola e servendola con la generosità della giovinezza e con lo strumento che è nelle nostre mani, lo scoutismo
- essere promotrice dell’umanesimo cristiano
- essere protagonista e testimone dell’ ecumenismo
Ringrazio l’Associazione Italiana per questi 40 anni di altissimo impegno educativo e di appartenenza sempre generosa all’UIGSE-FSE.
La nostra unione internazionale vive concretamente nell’impegno delle sue associazioni nazionali il carisma di unità nella distinzione e di distinzione nell’unità.
Essere scout ed essere cristiani significa costruire l’Europa del futuro con la nostra specifica e originale proposta educativa, significa appartenere a una comunità ecclesiale e civile e dimostrarne apertamente l’ appartenenza. È un obiettivo religioso, ma anche culturale e sociale.
Questa adesione ci definisce di fronte agli altri, per dire loro chi siamo e quello che vogliamo fare.
Ci fa leggere le tracce del nostro passato e guardare lontano e poi, come ha scritto Baden Powell, “ancora più lontano” .
“Guardare il futuro con speranza” come ci esorta Papa Francesco, perché la speranza si esplica nel fare qualcosa di concreto per gli altri, per la loro vita e per il futuro dell’uomo, che sia uno o molti.
Buona strada.
Perchè le Guide e Scouts d’Europa?
Attilio Grieco – membro Comitato di Direzione Centro Studi Scout d’Europa
Mi è stato chiesto di illustrare i motivi che 40 anni fa hanno spinto i fondatori di questa nostra Associazione, fondatori fra i quali c’era anche il sottoscritto, a scegliere di dare vita alle Guide e Scouts d’Europa e ad aderire alla Federazione dello Scoutismo Europeo.
Nel 1976, costatata l’assoluta impossibilità di poter proseguire a proporre uno scautismo cattolico fedele agli insegnamenti di Baden-Powell e alla dottrina della Chiesa e vista l’inutilità di cercare di cambiare le cose dall’interno, si decise di dare vita a una nuova associazione scout cattolica.
A questo punto si aprivano due possibilità: rifare l’ASCI e l’AGI, sia pure con un nome differente, oppure fare qualche cosa di nuovo.
Rifare l’ASCI e l’AGI?
Ci si rese subito conto che sarebbe stato un errore se si fosse scelto di rifare l’ASCI e l’AGI così come erano. Infatti l’ASCI e l’AGI pur applicando il Metodo Scout, non si erano dimostrate in grado di dare una lettura dell’educazione scout cristiana che sapesse impedire al proprio interno l’avvento e la progressione di quella forte ideologizzazione che in quegli anni avvenne sia in parti della dirigenza nazionale che, più in particolare, nel Roverismo e nello Scoltismo.
Ideologizzazione che ebbe luogo secondo le tecniche di diffusione proprie dei processi rivoluzionari, i quali, pur contando su un numero ristretto di aderenti ed essendo delle minoranze, riescono però a conquistare posizioni egemoniche. E questo nonostante l’ASCI e l’AGI fossero le uniche associazioni cattoliche che, dal ’68 al ’74 in particolare, progredissero sensibilmente nei numeri e nella diffusione sul territorio nazionale, dimostrando di avere potenzialità umane e ideali fortemente sentiti e condivisi.
Anche in questo caso si dimostrò perfettamente vero quanto affermava Perig Géraud-Keraod, il fondatore degli Scouts d’Europa: “La debolezza dello scautismo è sempre venuta dalla debolezza intellettuale di tanti dirigenti e Capi, i quali hanno fatto del metodo scout una semplice raccolta di ricette, o un catalogo di abitudini strane, senza chiedersi quale dottrina vi è dietro tutto ciò per giustificarlo e che è alla base di tutto l’insieme[1]”.
Nell’ASCI e nell’AGI il risultato di tutto questo erano dei Capi che sapevano far giocare i ragazzi, che conoscevano il Sistema delle Squadriglie, la Storia della Giungla, i Sentieri del Bosco, la Strada e così via. Però, quando nel 1968 tutta una serie di idee, totalmente estranee all’antropologia cattolica e agli insegnamenti del Magistero della Chiesa, vennero a sconvolgere la tranquilla vita nelle sedi scout, vi furono Capi che ne furono totalmente travolti. Anzi, molti di essi abbracciarono teorie che solo pochi anni prima avrebbero rifiutato decisamente.
Addirittura nell’AGI entrò in profonda crisi la stessa dirigenza nazionale dell’associazione[2].
Per comprendere il punto al quale si era arrivati, basti sapere che uno dei primi atti compiuti, il 5 maggio 1974, dal Consiglio Generale della nuova Agesci, fondata appena il giorno precedente, fu un pesante attacco al cardinale Vicario di Roma, mons. Poletti, e in difesa dell’ex abate Franzoni il quale si era posto in ribellione aperta contro la Chiesa[3].
I fondatori della nostra Associazione non condividevano assolutamente questi pensieri e queste posizioni, perché per tutti era irrinunciabile la fedeltà al Magistero della Chiesa e alla formazione dell’uomo e della donna secondo le chiare indicazioni della nostra fede.
Il caos negli anni ‘70
Negli anni ‘70 la situazione dello scautismo cattolico italiano era di una confusione estrema poiché, accanto a Capi che continuavano ancora a praticare lo scautismo tradizionale, vi erano Capi che, volevano realizzare le ideologie del ’68 e le teorie di personaggi come, ad esempio, il filosofo marxista Herbert Marcuse, e quindi sposavano l’idea della negazione dell’autorità, di ogni autorità, anche morale, spirituale, ideale, e quindi riformavano il metodo scout secondo le loro idee personali, abolendo ad esempio la Legge Scout e sostituendola con delle regole ideate sul momento[4], abolivano le Squadriglie e creavano dei gruppi variabili a ogni attività, abolivano la Giungla nei Branchi per adottare ambienti fantastici come i Puffi, le Carovane, La collina dei conigli, Sandokan e così via per arrivare infine a chi adottò come “ambiente fantastico” il tema di Che Guevara[5].
Molti Capi vedevano nel messianismo marxista la proposta più concreta di impegno politico e guardavano con simpatia ai movimenti dell’estrema sinistra[6], consacrandosi con le loro Unità all’attività sociale, arrivando così a perdere ogni identità scout, abbandonando l’uniforme scout e la vita all’aria aperta[7]. Uniforme che essi accusavano di “militarismo” e vita all’aria aperta che essi vedevano come “evasione” dai problemi reali, concreti, della società.
Vi erano Capi che rifiutavano la dimensione ecclesiale dell’associazione, ritenendo che l’educazione alla fede non fosse compito dello scautismo e che si mettevano in contestazione aperta verso la Chiesa e i suoi Pastori[8].
Vi erano Capi che, basandosi su idee e teorie personali, si lanciavano in avventate esperienze di coeducazione creando Unità miste in tutte le Branche[9].
Nell’AGI, a partire dalla dirigenza associativa, vi fu il pieno accoglimento dei principi del femminismo ideologico dal quale furono acquisite buona parte delle idee.
E così via ! Potremmo proseguire ancora con molti altri esempi…
Di fronte a questo sfacelo, molti che perseguivano i valori autentici dello scoutismo cattolico tentarono di reagire, cercando di “combattere dall’interno” le tendenze che si andavano affermando.
Ma anni di impegno non diedero frutti apprezzabili e, come fu scritto nel fascicoletto che l’Associazione diffuse per spiegare “le ragioni di una scelta”:
– i servizi forniti (principalmente campi scuola e stampa) sono stati ben lungi dal soddisfare un minimo di esigenza formativa nel senso scout e cattolico;
– le strutture scout sono in molte parti nelle mani di gruppetti che di chiaro hanno solo il loro orientamento politico e che hanno emarginato qualsiasi apporto “degli altri”, anche questo si era rivelato di cospicua “forza assembleare” (e tale emarginazione è, di fatto, avvenuta a tutti i livelli);
– il contesto associativo (campi scuola, riviste, convegni, ecc.) nel quale si andranno formando i nuovi Capi è quello esposto in queste pagine, per cui è legittimo chiedersi cosa avverrà anche nei Gruppi che ancora fanno un buon scoutismo allorché questi nuovi Capi subentreranno agli attuali (ed esempi a riguardo ce ne sono già un po’ dappertutto)[10].
Raccontando oggi tutto questo marasma degli anni ’70 si suscita una certa incredulità in chi ascolta, perché sembra impossibile che nello scautismo italiano possano essere accadute cose di questo tipo. Ma chi ha vissuto quegli anni sa bene che invece le cose stavano esattamente così e basta sfogliare le annate delle riviste scout di quegli anni per rendersene conto.
Fondamenti dottrinali solidi
Di fronte a una situazione di questo tipo i fondatori della nostra Associazione avevano bisogno non solo di recuperare e ricostruire un Metodo Scout, che in quegli anni era stato totalmente destrutturato, un Metodo Scout che fosse fedele agli insegnamenti di Baden-Powell e della Chiesa, ma avevano bisogno soprattutto di fondamenti dottrinali solidi sui quali fondare e basare questo Metodo Scout.
Questi fondamenti dottrinali solidi, che l’ASCI e l’AGI non avevano definito in maniera chiara, i fondatori della nostra Associazione li trovarono nelle “Guide e Scouts d’Europa”.
Certamente nelle “Guide e Scouts d’Europa” i fondatori della nostra Associazione trovarono anche molte altre cose, a cominciare da uno scautismo come il nostro e con gli stessi obiettivi di dare a ciascuno i mezzi per progredire verso la propria vita di adulto attraverso la adesione personale, il gioco, l’avventura, la vita in piccoli gruppi nella natura, con lo scopo di educare la persona in tutta la sua interezza e consentire al giovane di cercare e di trovare la propria vocazione di cristiano.
Nelle “Guide e Scouts d’Europa” i fondatori della nostra Associazione trovarono la stessa Promessa, la stessa Legge, la stessa uniforme, gli stessi distintivi, ma con la libertà di mettere in opera gli strumenti che ritenevamo più adatti alla nostra mentalità e alle nostre abitudini; come, ad esempio le Coccinelle, o la differente strutturazione del nostro Roverismo e del nostro Scoltismo.
La federazione internazionale e, più in particolare, l’associazione francese, diedero alla nostra Associazione anche un aiuto concreto, mettendo a disposizione manuali, pubblicazioni, distintivi, ecc.
Questo aiuto materiale passò, però, in secondo piano rispetto agli altri benefici derivanti dal fare parte di una federazione internazionale di scautismo cattolico integralmente inteso.
Chiunque conosca almeno un po’ di storia dello scautismo, sa bene quanto sia stata importante per tutto il movimento scout quella osmosi di idee e di esperienze che si realizzò fin dal primo Jamboree mondiale, tenutosi a Londra nel 1920. Quella osmosi ha fatto sì che, almeno fino alle grandi crisi dello scautismo nella seconda metà del secolo scorso, in tutto il mondo si utilizzasse un unico Metodo Scout, con le stesse Branche e con numerosissimi altri aspetti simili, tanto che anche la formazione dei Capi in tutte le associazioni scout avveniva secondo delle linee uniche stabilite da Gilwell Park in Inghilterra.
Questo interscambio di idee e di esperienze è avvenuto anche nella nostra federazione internazionale a tutti i livelli, in particolare della dirigenza. Interscambi che sono stati ben tangibili quando si sono organizzate e realizzate le grandi attività internazionali.
I testi fondamentali
Anche se ogni paese ha uno statuto e dei regolamenti in funzione delle proprie esigenze e della propria legislazione nazionale, la “Unione Internazionale delle Guide e Scouts d’Europa – Federazione dello Scoutismo Europeo” ha definito alcuni documenti che sono patrimonio e fondamento comuni di tutte le associazioni.
In questi documenti sono contenuti quei fondamenti dottrinali solidi che cercavano i fondatori della nostra Associazione.
- Lo Statuto Federale, che non si limita a definire le strutture e il loro funzionamento ma espone i principi sui quali è basata la UIGSE-FSE e i suoi obiettivi.
- Il Progetto Educativo, che presenta la UIGSE-FSE, dichiara i suoi riferimenti ideali, ne definisce le caratteristiche tipiche, gli scopi e gli strumenti utilizzati.
- La Carta dei Principi naturali e cristiani dello Scautismo Europeo, che ribadisce le “idee-forza” che costituiscono la base dello scautismo come metodo attivo e completo di educazione e di formazione personale, il destino soprannaturale di ogni persona, la distinzione fra il naturale e il soprannaturale, la preparazione di ragazzi e ragazze come figli della Chiesa verso la contemplazione e il sacro, ecc.
La Carta è composta da 12 articoli, attentamente identificati e ponderati nei quali sono espressi chiaramente i principi naturali e cristiani, che sono il fondamento della costituzione dell’uomo e nel contempo sono anche il fondamento della civiltà europea, e che ribadiscono in modo chiaro i valori fondamentali e permanenti del metodo educativo scout che ne consentono una applicazione adeguata alle caratteristiche proprie di ciascun popolo ed all’evolversi delle generazioni.
- Il Direttorio Religioso, che non solo stabilisce le norme di collaborazione all’interno di una stessa federazione fra cristiani di differenti confessioni, ma definisce anche i principi cristiani che sono alla base dell’azione dello Scautismo Europeo, ribadendo che le necessità organizzative dello scautismo non possano, in nessun caso, prevalere su quelle educative e che lo Scautismo è un metodo educativo che deve mettersi al servizio della vita soprannaturale e non l’inverso.
Esistono poi altri documenti federali sui quali non mi soffermo. Cito solo il Regolamento Federale che detta le norme e le linee di conduzione per un buon funzionamento della U.I.G.S.E.-F.S.E. e delle associazioni che ne fanno parte.
Tutti questi documenti costituiscono tuttora la base sulla quale si fonda l’operato di ogni singola associazione e la sua collaborazione con le altre associazioni facenti parte della UIGSE-FSE.
L’intereducazione
Un aspetto, che era iniziato proprio alla fine degli anni ‘60, ma che i fondatori della nostra Associazione non condividevano minimamente, era la “mixité”, la promiscuità di ragazzi e ragazze nelle stesse Unità e nelle stesse attività, è la cosiddetta “coeducazione” con una proposta educativa indifferenziata per maschi e per femmine.
In questo i fondatori trovarono una risposta piena nella UIGSE-FSE, la quale considera invece che l’educazione differenziata delle ragazze e dei ragazzi in Unità separate costituisca un elemento essenziale della sua pedagogia. Il parallelismo e l’arricchimento reciproco delle due Sezioni, maschile e femminile, consentono il pieno sviluppo delle attitudini e delle inclinazioni particolari assegnate, nel piano provvidenziale, a ciascuno dei due sessi.
La dimensione europea
Ultima come elencazione, ma per i fondatori certamente non meno importante degli altri aspetti, è la dimensione europea della UIGSE-FSE, la quale vuole partecipare alla costruzione di un’Europa unita e fraterna[11], svolgendo la propria azione nel campo tipico dello scautismo, quello dell’educazione dei giovani.
L’Europa per la quale operava e opera ancora oggi l’UIGSE-FSE non è l’Europa dei mercati, o l’Europa delle banche, o quella dello spread. Non è una costruzione politica o economica, ma è una realtà culturale, una comunità di valori, un’Europa dei popoli, dei cittadini, degli uomini, un’Europa che trae origine dalla loro storia.
È un’Europa che comprende tutti i popoli del continente dall’Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo.
È un’Europa riconciliata e capace di riconciliare. È un’Europa dello spirito, edificata su solidi principi morali e, proprio per questo, in grado di offrire a tutti e a ciascuno spazi autentici di libertà, di giustizia, di pace. È un’Europa che viva gioiosamente e generosamente questa sua missione.
Un’Europa che riconosca pienamente le sue radici cristiane e che respiri, come diceva San Giovanni Paolo II, con i suoi due polmoni, quello della tradizione occidentale e latina e quello della tradizione orientale e ortodossa.
Un’Europa che abbia una vocazione precisa, quella di sviluppare il senso dell’universale e di mettere insieme tradizioni culturali diverse, per dare vita ad un umanesimo in cui il rispetto dei diritti, la solidarietà, la creatività permettano ad ogni uomo di realizzare le sue più nobili aspirazioni sul fondamento del Logos, della Verità del Cristo.
Conclusione
Concludo questa mia esposizione con la considerazione che quella fatta nel 1976 è stata ed è ancora oggi la scelta migliore perché l’“Unione Internazionale delle Guide e Scouts d’Europa – Federazione dello Scoutismo Europeo” era allora, e continua a rappresentare tuttora, la migliore possibilità di “formare buoni cristiani e buoni cittadini secondo il metodo autentico e nello spirito del movimento scout ideato e realizzato da Lord Baden Powell, interpretato cattolicamente ed armonizzato con l’indole della gioventù italiana nello spirito della fraternità europea”, come recita il primo articolo del nostro Statuto.
[1] Maîtrises n° 18 – Aprile 1972
[2] Mario Sica, Storia dello scautismo in Italia, Fiordaliso, 4ª edizione, 2006, p.424
[3] « Estote Parati – Il Trifoglio » n. 4-5/1974 p.12 e 53
[4] Mario Sica, Storia dello scautismo in Italia, Fiordaliso, 4ª edizione, 2006, p. 418
[5] «Esperienze e Progetti», Rivista del “Centro Studi Baden-Powell”, n.13 p.108
[6] Mario Sica, Storia dello scautismo in Italia, Fiordaliso, 4ª edizione, 2006, p. 417
[7] A. Favale, Movimenti ecclesiali contemporanei, Las-Roma, p. 85
[8] Mario Sica, Storia dello scautismo in Italia, Fiordaliso, 4ª edizione, 2006, p. 421
[9] Mario Sica, Storia dello scautismo in Italia, Fiordaliso, 4ª edizione, 2006, p.423
[10] Associazione Italiana Guide e Scouts d’Europa Cattolici, Presentazione, Roma 1976
[11] 2° Principio dello Scout.
TAVOLA ROTONDA “La trasmissione della fede, un impegno comunitario.”
Scout d’Europa, AGESCI, Azione Cattolica, Comunità Giovanni XXIII, Comunità Sant’ Egidio, Salesiani , FUCI
Premessa
La trasmissione della fede oggi è una questione particolarmente urgente, in quanto sembra essersi molto affievolita, e in molti casi interrotta, quella “catena di trasmissione” di cui parlava papa Francesco in una Udienza Generale del 15 gennaio 2014: “di generazione in generazione, attraverso la rinascita dal fonte battesimale, si trasmette la grazia, e con questa grazia il Popolo cristiano cammina nel tempo… Inviati di Gesù, i discepoli sono andati a battezzare; e da quel tempo a oggi c’è una catena nella trasmissione della fede mediante il Battesimo. E ognuno di noi è un anello di quella catena: un passo avanti, sempre…. Così, il popolo cristiano è come un fiume che irriga la terra e diffonde nel mondo la benedizione di Dio… Ecco perché è importante trasmettere la nostra fede ai nostri figli, trasmettere ai bambini, perché essi, una volta adulti, possano trasmetterla ai loro figli».
Il Santo Padre osservava quindi la necessità di essere tutti missionari e soggetti attivi della nuova evangelizzazione, ricordando la sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione… La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di tutti, di tutto il popolo di Dio, un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati… Grazie al Battesimo dunque tutti nella Chiesa siamo discepoli, e lo siamo sempre, per tutta la vita; e tutti siamo missionari, ciascuno nel posto che il Signore gli ha assegnato… Tutti: il più piccolo è anche missionario; e quello che sembra più grande è discepolo. (…) Anche i Vescovi e il Papa devono essere discepoli, perché se non sono discepoli non fanno il bene, non possono essere missionari, non possono trasmettere la fede».
Il Papa sottolineava anche l’importanza decisiva della dimensione comunitaria: «Nessuno si salva da solo. Siamo comunità di credenti, siamo Popolo di Dio e in questa comunità sperimentiamo la bellezza di condividere l’esperienza di un amore che ci precede tutti, ma che nello stesso tempo ci chiede di essere “canali” della grazia gli uni per gli altri, malgrado i nostri limiti e i nostri peccati… Dunque la dimensione comunitaria non è solo una “cornice”, un “contorno”, ma è parte integrante della vita cristiana, della testimonianza e dell’evangelizzazione».
Vogliamo confrontarci con queste indicazioni del Papa, per verificare l’efficacia del nostro impegno evangelizzatore a 40 anni dall’inizio dell’esperienza degli scout FSE, 50 anni dopo la fine del Concilio Vaticano II e oltre 100 anni dopo la nascita della metodologia educativa scout. Siamo ancora in grado di affiancare i genitori e le famiglie in questo compito? Ci sentiamo protagonisti della nuova evangelizzazione, o ci limitiamo a gestire spazi e strutture di una realtà che ci sfugge dalle mani?
La velocità dei cambiamenti sociali, dovuta anche alla rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, rende sempre meno efficace la forza delle abitudini e delle tradizioni. Inoltre, l’onda lunga della secolarizzazione ha prodotto delle nuove generazioni ormai lontane dalla pratica religiosa, tanto da far scrivere della “prima generazione senza Dio”.
Anche la Chiesa italiana si è interrogata, nel Convegno di Firenze dello scorso novembre, sulle prospettive del “nuovo umanesimo” che vogliamo evangelizzare, ripartendo dalla categoria dell’alleanza tra Dio e l’uomo, tra la Chiesa e la comunità umana. È particolarmente illuminante confrontare gli Orientamenti per la catechesi proposti dalla CEI, nel testo recente Incontriamo Gesù del 2014, che vuole rinnovare il famoso testo del 1970, il Rinnovamento della Catechesi che proprio nel periodo in cui nacquero l’Agesci e la FSE, insieme a tanti gruppi e movimenti, propose un approccio nuovo alla trasmissione della fede. Allora si parlava di “educazione integrale” che porti alla “testimonianza di vita”, oggi si torna alla radicalità evangelica come “annuncio” e “incontro” col Signore, quasi un ripartire da zero, o meglio da Uno.
Nella Chiesa l’annuncio è sempre e comunque il vero metodo educativo, che rigenera la comunione della memoria e della testimonianza tra le varie generazioni. Vogliamo allora confrontarci sulla nostra capacità di sostenerci reciprocamente in questa comunione, nella solidarietà con le famiglie, che vivono in contesto sempre più disgregato, e con la società che cambia attorno a noi e dentro di noi. Ci interessa crescere insieme, non conquistare degli spazi o difendere delle posizioni, insieme nella Chiesa e nel mondo.
Moderatore don Stefano Caprio
(segue la trascrizione della registrazione degli interventi)
Don Stefano Caprio :Iniziamo con un breve giro di presentazioni.
Marilina Laforgia: sono presidente del Comitato Nazionale dell’Agesci insieme a Matteo Spanò che non è qui. Questa è una caratteristica, una delle scelte che questa associazione ha preso qualche anno prima che nascesse l’Associazione degli Scout d’Europa; ha compiuto la scelta della diarchia che significa la condivisione, la corresponsabilità non solo nella pratica educativa ma anche nella gestione stessa delle strutture dell’associazione a tutti i livelli. Ancora oggi è cosi, e dunque io condivido questa responsabilità con un uomo.
Michele Tridente: sono il vicepresidente per i giovani dell’Azione Cattolica, approfitto per portare il saluto del presidente nazionale Matteo Tuffelli e dell’assistente generale Monsignor Bianchi che sono impegnati in un altro incontro contemporaneo a questo.
Stefano Orlando: coordino le attività dei più giovani della Comunità di Sant’Egidio.
Matteo Santini: sono babbo di una Casa Famiglia, cioè di una famiglia aperta all’accoglienza, vengo da Fano e insieme a mia moglie condividiamo il mandato di curare le attività legate ai giovani per la “Papa Giovanni XXIII” e siedo all’interno del coordinamento del “Service Educazione e Formazione” dell’associazione stessa. E’ qui con me, mio figlio Michele.
Giovanni D’Andrea: salesiano, sono il coordinatore delle parrocchie e oratori dei salesiani. Sono siculo, come si sente dall’accento. Ho una buona conoscenza della FSE perché dove stavo a Palermo a Ballarò c’era, ai tempi di don Rocco, il gruppo di Vincenzo Cambria e Marina; adesso il gruppo si chiama “don Rocco Rindone”. Per i salesiani mi occupo anche di emarginazione e del disagio sociale nell’ambito di una federazione “SCS”, e ne sono il presidente. All’interno ci sono: case famiglia, comunità per i minori, tossicodipendenze, centri diurni e servizi educativi territoriali.
Marianna Valzano: sono Presidente della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) insieme a Marco Fornasiero, Presidente nazionale della Fuci, e come abbiamo già ascoltato non siamo l’unica realtà che condivide la doppia carica di rappresentanza maschile femminile e la condividiamo a tutti i livelli locali, regionali e nazionali.
Pietro Antonucci: sono Capo Gruppo, Consigliere Nazionale e già Commissario Generale della FSE.
Don Stefano Caprio : Il tema della Tavola Rotonda non è la FSE, ne abbiamo parlato abbastanza di questi 40 anni, ma come diceva Nevio Saracco, in questa seconda parte vogliamo allargare lo sguardo, guardare di più al presente e al futuro, e la questione del presente è già risuonata tante volte nella relazione principale di stamattina e nelle altre, e la questione della trasmissione della fede oggi. Noi abbiamo parlato di tante cose di 40 anni fa, di tanti avvenimenti, incontri, discussioni, mete, ma oggi siamo di fronte ad un problema, ci troviamo ad avere ragazzi a cui nessuno è più capace di trasmettere la fede, o quasi. Si è un po’ interrotta la catena di trasmissione. E a noi è rimasto il cerino un po’ in mano troppo spesso. Non sappiamo bene come fare. Abbiamo sentito questa mattina diverse citazioni. Papa Francesco nelle sue encicliche, e mettiamoci anche nell’ultima Amoris Laetitia, perché come richiamava stamattina Chiara, è proprio sulla trasmissione in famiglia sulle relazioni, un testo estremamente ricco, l’abbiamo tutti letto in fretta perché appena uscito, ci ispira a seguire un po’ quest’esempio, come ricominciare da una relazione umana da una trasmissione vera. Allora abbiamo direi quattro declinazioni della domanda:
- la prima: che cosa vuol dire trasmettere la fede
- come educare in modo più specifico
- il rapporto con la famiglia
- il rapporto con la Chiesa e le altre comunità.
Ognuno di voi ha preparato qualcosa da dire, e qualcuno ha preparato anche qualcosa di scritto che rimarrà agli atti di questo convegno. Vorrei cominciare, oggi che abbiamo avuto la visita del Papa a Lesbo, dando innanzitutto la parola a Stefano della Comunità di Sant’Egidio, anche perché il Papa stamattina ha deciso di portarsi con sé da Lesbo 12 profughi che saranno ospiti della Comunità di sant’Egidio, quindi direi che questo gesto ci dà proprio un po’ lo spunto a parlare di queste cose.
Stefano Orlando: io credo che un modo di trasmettere la fede sia quello di fare vivere la fede, e questo avviene anche attraverso l’incontro con i poveri. L’esempio dei migranti è qualcosa che per noi è stato molto vero in questi ultimi anni, parlo dell’esperienza dei giovani della Comunità. La Comunità giovani, non della Comunità in generale, cioè dei ragazzi che non facevano parte della Comunità che si sono avvicinati a noi e alla fede perché hanno incontrato i poveri e i migranti. A parte diciamo il discorso teologico, per cui chi incontra i poveri incontra Gesù (Matteo 25 ‘Ero forestiero e mi avete accolto’), c’è anche un discorso per cui io credo che i poveri in qualche modo evangelizzino perché aprono i cuori dei giovani a delle domande profonde, li fanno in qualche modo uscire dalla bolla in cui si trovano a vivere, e per bolla intendo l’incapacità di guardare ai problemi concreti della vita, la paura in cui vivono tanti ragazzi adolescenti. Il discorso della paura è molto grande, ma parto dai ragazzi che incontro, nelle scuole c’è l’ambulanza parcheggiata fuori perché hanno crisi di panico, ansia; hanno queste cose per l’interrogazione di greco: si può vivere cosi, si può vivere spaventati dalla professoressa di greco? Allora l’incontro con i poveri ti fa capire quali sono i problemi della vita, ti fa capire in qualche modo che c’è bisogno di cambiare il mondo. Il discorso sui migranti rivela una grande ingiustizia, il discorso sui profughi, su coloro che muoiono in mare, giovani come loro, come i nostri ragazzi e che per farlo prima di tutto bisogna cambiare se stessi – allora il Vangelo, che è una parola di liberazione, in qualche modo è una risposta a queste domande, però se tu non hai la domanda non hai bisogno del Vangelo. La domanda ci permette
di trasmettere la fede.
Volevo dire altre due cose su quest’argomento, intendo la Parola di Dio, la Bibbia. Abbiamo avuto un Convegno con giovani che si sono avvicinati alla Comunità, ho chiesto chi non ha la Bibbia a casa? Un 20%. Chi è che non l’ha mai letta? La maggior parte. Chi è che la legge spesso? Il 25 %. Non faccio altri commenti, credo bisogna dargliela e fargliela leggere. E poi il discorso sulla Comunità e il nostro nome non lo faccio, perché è un discorso lungo. Due parole: i ragazzi stanno troppo da soli, non sono capaci di stare con gli altri, ci stanno troppo poco tempo, la fede non si vive da soli, si vive in una comunità – qui c’è un problema alla base, insegnare a vivere insieme.
Don Stefano Caprio: Il 25 % non è poco. Comunque poi lo vogliamo sapere perché si chiama Sant’Egidio. Diccelo subito.
È facile. La Comunità è nata nel ’68 e non aveva nome, si chiamava la Comunità. Giravamo, non avevano neanche una sede, ci ospitavano le parrocchie, eccetera. Nel ’73, il Convento di Sant’Egidio a Trastevere era abbandonato e l’abbiamo preso, è diventata la nostra sede. Nel ‘74 ci fu il convegno ‘sui mali di Roma’ organizzato dal Cardinal Poletti [Convegno sulle “Responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella diocesi di Roma”], bisognava iscriversi e darsi un nome, la Comunità era un po’ generico; siamo diventati la “Comunità di Sant’Egidio”, quindi il nome è stato un po’ casuale, quindi semplicemente Sant’Egidio, all’indirizzo: Piazza Sant’Egidio – anche se il santo viene dall’Oriente –, unisce la Grecia e l’Occidente, e quindi c’è un discorso ecumenico e poi nel particolare quella mano che difende la cerva dal re cacciatore e si becca la freccia del re e quindi difende i deboli, i poveri e in questo noi un po’ci siamo ritrovati.
Marilina Laforgia: L’Agesci è nata nel ’74, come Sant’Egidio, e oggi parlando della FSE abbiamo occhio e modo diverso di parlare e di vivere la fede, è vero o no? Credo proprio di no. Certo noi raccontiamo questa stessa storia con accenti diversi, ma sono percorsi che si compiono, anche se non è questo il luogo e il momento di confrontarsi anche sul nostro passato, che ha avuto momenti dialettici. Nella logica in cui si colloca questa tavola rotonda, è meglio guardare al futuro che è intenso di possibilità di dialogo proficuo, abbiamo la possibilità di mettere in dialogo le nostre storie. Io piuttosto, per rispondere alla domanda che mi è stata posta, vorrei proprio partire dalla percentuale che veniva poco fa enunciata, perché a me, sotto il titolo della tavola rotonda, sono venute in mente delle immagini, delle duplicazioni. La prima è quella di Armando Matteo: ‘La prima generazione incredula’, che penso conosciamo tutti, tutti abbiamo studiato e riflettuto su quelle analisi, e un’altra recentissima, a cura dell’Istituto Toniolo è: ‘Dio a modo mio’, non poteva sfuggirci come educatori alla fede, non potevamo non cogliere queste novità alle quali aggiungo peraltro anche la ricerca che l’Agesci ha commissionato all’agenzia Codici in occasione della Route Nazionale 2014 – si tratta di indagini di carattere prevalentemente sociologico, analisi che in qualche modo ci interpellano come educatori cattolici. Anch’esse non sono al riparo dei luoghi comuni, tuttavia hanno degli elementi di convergenza, uno fra tutti è l’ignoranza nella cultura biblica. È stato accertato che la maggior parte degli intervistati sono carenti in questo senso; l’oggetto d’indagine era costituito da giovani al di sotto dei 30 anni, diciamo cosi in maniera pratica, tutti battezzati, che lasciano emergere una profonda ignoranza della cultura biblica e una grande diffidenza rispetto alla dimensione comunitaria della fede cristiana, dell’appartenenza alla comunità religiosa, cristiana. In maniera altrettanto univoca, queste indagini rilevano un senso di bisogno del sacro nelle giovani generazioni.
Insomma, quello che vorrei sforzarmi di dire adesso, è che quello che dovremo fare è lasciare che i poveri evangelizzino, anche i ragazzi, anche questi giovani. Anche la loro biografia ha una portata importante nel processo di trasmissione della fede, che è fondamentalmente un processo di comunicazione, nel quale qualcuno consegna quella parola di vangelo che in qualche modo ha convinto la propria stessa vita – questo è il processo di trasmissione della fede, che come si diceva, in una certa misura si è interrotto. Guardare con attenzione la biografia di questi ragazzi ci fa capire quanto è cambiato, loro ci dicono che non sono più una generazione di “nati cristiani” come le generazioni passate, il loro bagaglio di religiosità è fatto da una serie di tasselli dovuti che sono i sacramenti, ma nulla dell’esperienza della fede nella comunità cristiana. La comunità parrocchiale non può continuare ad accoglierli con un modello di trasmissione della fede, con un modello di catechismo, di trasmissione della parola che è stato capace di accogliere una generazione diversa dalla loro. La trasmissione della fede un tempo avveniva nella famiglia, e la parrocchia poteva ben essere una sorta luogo di servizi religiosi, una sorta di luogo dove si trasmetteva la dottrina per inculturazione, che pure è un dato intellettuale importantissimo. Oggi le comunità cristiane e noi dunque abbiamo bisogno di ritrovare, come dire, mostrare il volto generativo della fede, della Chiesa. E’ un lavoro, una strada tutta da percorrere, insieme, per questo il tema di questa tavola rotonda mi torna molto interessante.
Don Stefano Caprio: Passiamo un po’ alla seconda domanda, ma teniamo presente quello che è stato detto. Se è vero che i ragazzi sono ansiosi, diffidenti, stanno in una bolla, ecc., ma è possibile ancora educarli? Come ci si educa? Direi che è una domanda da fare ad un salesiano, chiediamo a don Giovanni, ora, il carisma dei salesiani è un carisma educativo più o meno contemporaneo con lo scautismo, ma spesso ci incrociamo e ci teniamo a distanza. Voi che cosa pensate oggi dell’educazione?
Don Giovanni d’Andrea: Noi pensiamo, come pensava don Bosco, che l’educazione è una cosa di cuore. Quindi il cuore dell’educatore è tutto rivolto al gioco, ai ragazzi che ha davanti, è una coeducazione, si cresce assieme, noi educatori non siamo arrivati, vogliamo essere compagni di viaggio con questi ragazzi, vostro figlio deve arrivare ad essere quello che voi avete detto prima. Don Bosco diceva: onesti cittadini e buoni cristiani, prima sentivo nel video buoni cittadini e buoni cristiani – il fine è sempre quello, la frase di don Bosco poi continua ‘futuri abitatori del cielo’; il paradiso s’inizia a costruire su questa terra. In questa coeducazione, in questo camminare assieme sta tutto il dialogo educativo. Partiamo dal livello dove sono i ragazzi, dove li troviamo. Perché abbiamo i cerchi concentrici: quelli che sono più vicini alla fede e quelli che sono più lontani. Se io penso ai ragazzi che abbiamo nelle nostre 30 case-famiglia sparse per l’Italia, circa 250, alcuni non sono neanche cristiani, abbiamo diversi musulmani. Abbiamo poi ragazzi, i nostri animatori che sono più vicini al percorso di fede, quindi il ragazzo va preso al livello dove è, partendo dal percorso della promozione umana per poi arrivare al buon cristiano, questo è un percorso che va fatto assieme e vale sempre quello che dice don Bosco: in ognuno di noi c’è un punto accessibile al bene, anche nel ragazzo più disgraziato c’è un punto accessibile al bene. Compito dell’educatore alla fede è trovare questo punto accessibile e farlo vibrare. E poi da lì il cammino si fa assieme. Uno accanto all’altro. Questo è quello che noi ci sforziamo di fare come salesiani di fronte a tutte le sfide che la società ci pone davanti.
Don Stefano Caprio: Queste citazioni di don Bosco agli scout suonano familiari, come se fossero fratelli quindi… abbiamo bisogno di ripartire tutti insieme. Allora se bisogna ripartire dal punto in cui sono oggi i giovani, e a livello della fede sono a zero, chiederei ai presidenti Marianna e Marco della Fuci, voi che educate con la scuola e la cultura, non è che partite troppo in alto?
Marianna Valzano: questa è una critica che spesso ci viene fatta. La nostra è un’esperienza che nasce in un’associazione che prevede un confronto tra pari, siamo tutti giovani studenti universitari, il nostro unico punto di riferimento è il nostro assistente ecclesiale che effettivamente è la bussola del nostro cammino. Che cosa scopriamo nel nostro cammino? Scopriamo sì che c’è una generazione incredula, ma anche che c’è una forte di ricerca di spiritualità, questo non lo dobbiamo dimenticare. Una spiritualità che passa attraverso varie forme e passa anche attraverso la cultura. Come cittadini italiani ci portiamo dietro un grosso bagaglio culturale ma la cultura continua a costruirsi oggi, anche nelle Università. Nell’Università, che come altre istituzioni educative vive un periodo di forte crisi, c’è ancora una possibilità di educazione, e di un’educazione tra pari, di un’educazione che passa dal fatto che io sono responsabile della persona con cui condivido il mio percorso. Il mio percorso di studi entra in relazione con quello di qualcun altro, il mio percorso di fede entra in relazione con quello di qualcun altro e da lì si può partire per costruire anche il dopo, per aprire delle strade. Siamo noi che rappresentiamo un po’ il futuro, e se non puntiamo anche su questo, se non possiamo confrontarci in qualche modo su questi temi dubito che saremo anche dei buoni educatori domani; iniziamo anche ad imparare la responsabilità di educarci tra di noi e pian piano riusciremo a prendere la responsabilità nei confronti dei più piccoli.
Marco Fornasiero: la Fuci, per chi non lo sapesse, è una realtà che ha i suoi anni perché è stata fondata nel 1896 e nel corso della sua storia ha avuto molte modifiche strutturali e culturali. Per esempio ci siamo uniti uomini e donne nel post concilio, prima c’era una Fuci degli uomini e una Fuci delle donne. Diciamo che l’essenza educativa formativa della Fuci nasce all’incirca negli anni ‘20 del novecento grazie a due figure fondamentali: la prima è un assistente, Giovanni Battista Montini [Papa Paolo VI] all’epoca un semplice assistente che poi è stato nominato assistente nazionale della Fuci; l’altra è un laico, Igino Righetta, all’epoca Presidente della Fuci.
La loro indicazione era che la vocazione della Fuci doveva essere quella di aprire la cultura ai valori religiosi, e la vita religiosa ai valori culturali. Era essenziale per questo il confronto con la cultura moderna. In queste parole, noi studenti universitari, ritroviamo dei concetti e delle linee di azione che valgono ancora oggi. La nostra sfida è affrontare con i giovani un percorso che in precedenza
era garantito da altre agenzie educative fin dalla loro più tenera età.
Giovani che magari vengono anche da altre fedi e questo ci porta ad un confronto continuo e a riprendere le parole che Papa Francesco ci ha consegnato un anno e mezzo fa durante la
beatificazione di Papa Paolo VI : lo studio, la ricerca e la frontiera. Lo studio è pensato come mezzo di approfondimento, come una vocazione, come una formazione personale, talvolta faticosa, ma che tende alla verità. Una ricerca che deve essere quel metodo che ci abitua a confrontarci con l’altro, al dialogo e a vedere nell’altro una risorsa più che un ostacolo. La frontiera perché l’Università ci pone di fronte a delle frontiere, degli ostacoli che dobbiamo essere in grado, come studenti universitari, di poter affrontare. Io penso che se non si parte dallo studio, sarà difficile risolvere molte problematiche che ci sono adesso a livello giovanile. Quello che io vedo è che i giovani non è che non si pongono le domande, se le fanno, anche molte; il problema è che, come sottolineava anche prima la collega dell’Agesci, probabilmente bisogna cambiare il metodo, bisogna aggiornarsi. Un nostro assistente della Cattolica di Miliano, ad un corso di formazione, ha affermato di sentirsi un po’ spiazzato di fronte ai giovani di oggi rispetto a quelli di 5-10 anni per la necessità di pensare ad una nuova evangelizzazione.
Don Stefano Caprio: Grazie Marco, sicuramente hai ragione, infatti noi siamo qui un po’ per studiare insieme come possiamo fare. Velocemente appunto giungiamo alla terza domanda. Se è vero che educare oggi è un compito un po’ da reinventare, da rigenerare, è vero che l’educazione parte sempre dalla famiglia e noi ci troviamo tutti di fronte a famiglie che fanno fatica a loro volta ad educare, a trasmettere la fede. Allora abbiamo qui un capo famiglia, un capo di una Casa-Famiglia, Matteo, che non è da solo ma ha anche un fratello, Michele, … un figlio, chiediamo a loro cosa vuol dire famiglia oggi per loro.
Matteo Santini: a chi ha fatto il complimento, a lui o a me? Visto che si parla di famiglia, dico un po’ come siamo messi nella nostra famiglia. Intanto vi porto il saluto di Sara, mi sono dimenticato di dirvi che condivide con me questo mandato di animazione dei giovani, mia moglie, oltre che a portarvi ovviamente i saluti di Paolo Ramonda che è il Presidente dell’associazione. Come famiglia, noi ci siamo sposati nel 2007, incontrati sulle vie marchigiane, io sono romagnolo, abitiamo a Fano e abbiamo subito sognato una famiglia grande, allargata e siamo partiti… di solito si dice che il matrimonio parte in tre: cioè lui, lei e il Signore, noi eravamo in 4 perché c’era anche Michele, siamo partiti già in un quadrilatero, e cosi sognavamo, ognuno per il suo cammino, una famiglia allargata. E il Signore ce la sta donando, questa è una grande grazia, abbiamo trovato anche una comunità dove poter vivere, incarnare questa vocazione che è appunto nata dal suo fondatore che recentemente è andato in cielo, che è don Oreste Benzi, di Rimini, è nata nel ’68, visto che il ’68 è stato ricordato, quindi siamo lì, nel mezzo dei fermenti sociali. Come famiglia! Io voglio fare una battuta, spesso quando ci chiamano a fare testimonianza ci dicono: ma voi come fate, perché adesso in casa siamo in 11, io, mia moglie Sara, una persona volontaria che sta facendo una verifica vocazionale, e tutti gli altri sono figli. Sono 4 figli naturali, e il resto generato nell’amore. Quando dei giovani vengono a incontrarci, o educatori o alter ego, vengono e chiedono, ma come fate, ma perché? Chi ve lo fa fare? Quello che noi diciamo sempre è questo: che all’interno di una famiglia allargata, come può essere la nostra, che sembra l’apoteosi del dare, dello spendere, in realtà noi riceviamo tanto, tante opportunità di crescita, di lavoro interiore, opportunità davvero di metterci a nudo, di fare verità. La condivisione diretta veramente ti cambia la vita perché quando tu apri la porta della tua famiglia al povero e al piccolo, a una persona che ha bisogno di una mano, poi ti accorgi che esci dalla dimensione del servizio inteso come prestazione d’opera, ma entri in una dimensione di condivisione diretta in cui metti la tua vita affianco della vita dell’altro, allora subentra l’appartenenza, cioè, ci si comincia ad appartenere.
Ritornando alla domanda di partenza, vediamo che nei percorsi giovani, che proponiamo ai nostri figli in primis e ai giovani che ci vengono a cercare, questo elemento è di una novità incredibile, sconvolgente perché ti fa entrare in una dimensione di vita nuova in cui non c’è chi si salva e chi è salvato ma ci si salva insieme, mi sembra che questo sia venuto fuori da diversi interventi. Tutto questo è uno specifico visibile, c’è bisogno però di un nutrimento a questa dimensione – “è impossibile stare in piedi se non si sta in ginocchio”, diceva don Oreste, è impossibile non far entrare un pochettino il Signore perché le nostre forze finiscono, le nostre forze sono limitate, umane, e c’è bisogno quando viene fuori il nostro limite che il Signore intervenga. Allora la famiglia allargata, la dimensione che viviamo è un’occasione continua di conversione e questo secondo me è una cifra che ci possa appartenere. Penso che, affacciandoci alle sfide odierne molto difficili per la educazione dei giovani, queste sfide interpellino la nostra vita profondamente, le nostre radici, il nostro rapporto con il Signore e a mio avviso non possiamo che partire da lì. Io negli appunti che vi lascerò citavo molto di Sant’Ambrogio, che diceva “la luna narra il mistero d Cristo”, questa immagine poetica anche per dire quello che Benedetto XVI aveva ripreso in un opuscolo di cui adesso non mi ricordo il titolo, ma lo trovate scritto “… perché sono cristiano” o una cosa del genere, la luna siamo un po’ noi che riflettiamo la luce di Cristo, senza questa luce non riflettiamo, siamo la parte oscura quella che manco si vede, invece abbiamo bisogno di questa relazione vitale.
Don Stefano Caprio: Ti ringrazio, direi il temine famiglia allargata è uno dei termini propri dei nostri tempi, solo che può avere connotati positivi o anche meno positivi e quindi riflettiamoci un attimo. Vorrei chiedere a Pietro Antonucci, noi che siamo Scout d’Europa e abbiamo questa “intereducazione”, abbiamo sentito oggi, unità e differenze, se ci puoi aiutare a capire che tipo di relazioni con la famiglia, nelle famiglie, tra di noi, s’istaura oggi.
Pietro Antonucci: Sì, credo che dovremo metterci dalla parte della famiglia, perché fondamentalmente, stamattina abbiamo visto un quadro sociale abbastanza chiaro, noi veniamo da un’assemblea dove abbiamo avuto degli ospiti che ci hanno ri-tracciato una difficoltà della famiglia a educare. Io come Capo Gruppo tante volte vedo i genitori che accompagnano i ragazzi alla Messa di gruppo mensile e se ne vanno, e addirittura qualcuno organizza il pullman, cioè l’accompagni tu, passi a prendere i miei e poi li porti tutti quanti in sede e poi te ne torni, cioè c’è un genitore che fa l’autista e cinque bambini che vengono a Messa e i cinque genitori di quei cinque bambini non ci sono. Di fatto ci stanno demandando anche questo. Adesso sto esagerando, per carità, però esiste anche questo tipo di rapporto, e questo ci dà una sorta di responsabilità enorme. D’altro canto mettiamoci della parte della famiglia, e ci rendiamo conto che probabilmente ci sono tante difficoltà. Stamattina abbiamo ascoltato di una comunicazione digitale – ormai c’è la relazione digitale e la relazione analogica, sono due cose diverse. Però se uno guarda quello che è successo negli ultimi 7 anni, non 50 anni, e guarda quello che c’era scritto sul telefonino di un dodicenne di un po’ di tempo fa come sms: si scambiavano delle informazioni, poi le informazioni si sono condite con due puntini e una parentesi, due puntini e la parentesi rivolta al contrario a seconda se … come per dire io ti scrivo un’emozione, non solo ti dò un’informazione. Adesso grazie ai nuovi sistemi ci sono le faccine, con WhatsApp puoi mandare messaggi video, audio cioè puoi fare di tutto. Il tempo, leggevo l’altro ieri, il tempo di refresh medio di un quattordicenne su WhatsApp è di 14 secondi, tempo di risposta, vuol dire che questa generazione non è che si sta scambiando informazioni, sta comunicando, ci piaccia o meno. Perché quando io rispondo dopo 14 secondi a un messaggio, e continuo a parlare, è né più né meno quello che noi facevamo sul muretto del paese, forse, solo che si fa sul divano di casa. Questa però non è una comunicazione vera, o meglio non è una relazione vera, perché comunque è una relazione digitale. Questo appiattisce in ogni caso la relazione, e quindi sono bravissimi con il telefonino, hanno un pollice magico, però poi li metti un di fronte all’altro e faticano a relazionare, e questa è una difficoltà all’interno di una famiglia. Come un’altra difficoltà è portarli dagli scout, io sono cresciuto che a 11 anni andavo a riunione da solo, facevo 11 chilometri a piedi in una strada dove non c’era un marciapiede, era una strada di grande comunicazione, perché a Frosinone i marciapiedi li hanno messi negli anni ’90, grande scoperta, quindi, mia madre, incosciente pura agli occhi di una madre attuale, mi lasciava solo a 11 anni. Oggi noi abbiamo una grande difficoltà, quello di portare i bimbi a fare un’attività. Il rischio educativo di cui si parlava stamattina è un rischio davvero elevato per le famiglie attuali, perché non c’è molta voglia di rendere autonomi i propri figli. Ce lo diceva il sociologo all’assemblea, c’è una voglia contraria, quella di trattenerli, custodirli, proteggerli, metterli in una campana di vetro, per esagerare il concetto, e questo è un altro elemento di difficoltà. Almeno per noi, quando iniziamo a fare scoutismo, o si fanno delle riunioni dove si fanno dei gran tornei di scacchi, e secondo me arrivano col para gomiti per evitare lussazioni, a forza di muovere i pezzi si può anche rischiare lì, oppure il rischio è davvero alto. Occorre probabilmente conquistare la fiducia, iniziare un dialogo diverso con le famiglie e aprirsi una finestra educativa per trasmettere la fede, per fare educazione, educare insieme a loro. Credo che questa sia una sfida molto importante, abbiamo tutti gli strumenti, e non sono dell’idea che occorra aggiornare il metodo, almeno per quel che ci riguarda. Occorre conoscere meglio questa capacità comunicativa che i nostri ragazzi sviluppano, nativi digitali, così li chiamano, che non sanno come è fatta una macchina scrivere. Mia figlia ha 7 anni, ho comprato il televisore e si è messa a fare così con le dita e mi ha guardato: questo coso non funziona, perché uno schermo per un bambino di 7 anni, che non reagisce al tatto, non funziona. Hai voglia a spiegarle il cinescopio. Questo è un po’ il problema. Credo che abbiamo nelle nostre corde una grande possibilità. Le nostre famiglie sono per lo più con un figlio unico, nel mio gruppo il 70%, credo che a livello associativo non stiamo lontani da questo. Abbiamo l’occasione di dare loro veramente un’idea di fratellanza, di comunità che insieme prega, che insieme cresce. Possiamo trasferire questo, una grande ricchezza, una grande mano per una famiglia che si trova con un figlio unico, con poche possibilità d’interazione. Abbiamo la scuola, che al 90% è femminile, parlo degli insegnanti nell’età elementare, uno dell’altro 10% sta qui dentro. Abbiamo questo tipo di difficoltà, la scelta di inter-educare, come diceva don Stefano, è fondamentale, fornire un modello maschile che non c’è nella scuola, con i grandi che sono sempre più fuori casa, perché guardate il mondo del lavoro, quanto chiede a una persona oggi rispetto a dieci anni fa. Quindi, abbiamo questa ricchezza, abbiamo l’esperienza “lo scout vede nella natura l’opera di Dio, ama le piante e gli animali”, ecco quel vedere che è anche toccare per noi. E quella forma esperienziale ai ragazzi manca, perché possono vedere tanto oggi, toccare moto poco. L’educazione è molto passiva, passa davanti a loro e loro la vedono. Guardate che anche Internet, il giocare con il pc piuttosto che con il palmare non è una vera interazione. Certo, è un po’ di più che mettersi davanti a un cartone animato, ma non è una vera interazione o meglio non è una relazione con un’altra persona ma con un dispositivo come diceva questa mattina la professoressa. Su questo credo che possiamo esercitare un ruolo importantissimo, dobbiamo lavorare molto. Il primo passaggio sarebbe riconoscere alle famiglie questa difficoltà, metterci dalla loro parte e farci aprire quella finestra di fiducia che ci permette di correre il rischio educativo. Perché un ragazzo che non viene chiamato a responsabilità, a scelta, a sbagli è difficile che possa maturare una crescita. Bisogna veramente impegnarci tutti, su più fronti con un confronto sempre più aperto.
Don Stefano Caprio: Grazie Pietro. Ho lasciato Michele dell’Azione Cattolica in fondo alla fila perché abbiamo sentito un po’ dalla storia, noi siamo tutte realtà nate magari un secolo fa o anche di più, ma poi che si sono riformulate nel post-Concilio, o che sono nate nel post-Concilio nella stagione così detta dei movimenti, che forse oggi ha un po’ concluso la sua parabola, nel senso che ultimamente non ne sono nati di nuovi, che sono maturati quelli che sono nati. Diciamo anche che in questi cinquant’anni a volte ce le siamo dati di santa ragione non solo gli Scout d’Europa con l’Agesci, ma anche gli altri movimenti spesso si sono, se non contrapposti, magari un po’ separati, distanziati. Magari ancora c’è qualche strascico di questa stagione. Ma l’Azione Cattolica è la mamma di tutte le associazioni e movimenti, a volte si diceva che tutte le varietà di attivismo cattolico significano fare “azione cattolica”. Oggi come siamo messi? Come possiamo tutti collaborare, siamo tutti qui – realtà che partecipano alla pastorale giovanile, abbiamo sentito don Gero questa mattina che ci diceva che bisogna un po’ reinventarla la pastorale giovanile, eravamo troppo seduti sui grandi eventi, si fanno un po’ di progetti, ma oggi che cosa vuol dire per noi tutti, e per l’Azione Cattolica in particolare come collaborare insieme nella Chiesa, per educare, per sostenere le famiglie, per trasmettere la fede.
Michele Tridente: Grazie anzitutto per l’invito. Papa Francesco a Firenze ha detto alla Chiesa italiana due cose chiare, in cui secondo me si ritrova la risposta a questa questione dentro la Chiesa italiana. Primo, studiatevi Evangelii Gaudium: sono tre anni che l’ho scritta, leggetela e studiatela. Due, che il dialogo si fa a partire dalle cose concrete. Io penso che il vero modo per collaborare assieme, associazioni, movimenti, realtà ecclesiali nella Chiesa e nella società, evidentemente è mettersi assieme per fare cose concrete. Magari pensando diversamente, magari avendo accenti, metodi, sfumature diverse, ma nella consapevolezza di essere figli della stessa Chiesa. In questa consapevolezza bisogna trovare una sintesi. E ci sono diversi esempi a livello nazionale e a livello locale in questo percorso. Il dialogo di per sé educa alla dimensione stessa della Chiesa. Perché che cos’è la dimensione ecclesiale, se non il vivere la stessa fede assieme piuttosto che da soli?. Vivere il tempo di una comunità di cui ciascuno è responsabile, ma nello stesso tempo di cui ciascuno si sente accolto. E in questo Papa Francesco, quando ci parla della misericordia, ci dà la cifra della vita ecclesiale, perché ci dice che è la misericordia ad aiutarci a stare insieme e a vedere l’altro con simpatia, con amore, con accoglienza delle fragilità che ci permette di vivere una dimensione ecclesiale che fugga dal dire io sono meglio di te, io sono arrivato prima di te, io ho fatto più di te quindi tu sei peggio di me, tu devi fare quello che dico io altrimenti niente.
La seconda cosa che dicevo del Papa a Firenze, studiate l’Evangelii Gaudium! Nell’enciclica troviamo lo stile che oggi, nel 2016, la pastorale in chiave missionaria deve avere per essere una pastorale efficace. Noi abbiamo in Evangelii Gaudium al n. 35 una tesi, in cui il Papa dice che una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata a trasmettere tutte le dottrine. Una pastorale in chiave missionaria è una pastorale che va all’essenziale. La proposta si semplifica senza cadere nella banalità e così diventa più convincente e radiosa. Ecco, lo scopo di ogni pastorale giovanile è dire ai giovani, comunicare ai ragazzi la bellezza dell’incontro con Cristo in maniera semplice, che possa appassionare. E una proposta educativa, una proposta ecclesiale che appassiona è una proposta che chiama in causa la vita, che parte dalla vita, dalle sue fragilità, dalle sue gioie, dai suoi momenti di crisi intesi come momenti di passaggio, momenti fondamentali di cambiamento e cerca di ascoltarla, accompagnarla e piano piano dare una risposta. Quello che dice poi il Concilio con la Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”, della Chiesa. Perché oggi, questo oggi che viviamo, è un dono perché le persone con cui viviamo, le persone che incontriamo, le situazioni che intercettiamo sono anche una responsabilità, intesa nel senso di rispondere alla vita dell’altro, rispondere alle storie dell’altro, perché l’altro mi appartiene.
Don Stefano Caprio: Grazie anche a Michele, che riprendeva alcune cose dette oggi anche dal nostro Assistente Generale; “essere discepoli missionari”, questo è lo spirito dell’Evangelii Gaudium … Chiedo ai relatori se hanno qualcosa da aggiungere, o vogliono interloquire su quello che è stato detto.
Marilina Laforgia: volentieri riprendo la parola, sono molto sollecitata da quello che si è detto sin qui, e la riprendo a partire dalla domanda che veniva fatta in apertura di questa tavola rotonda. O meglio, dell’immagine che veniva data in apertura di questa tavola rotonda: il cerino in mano. Alla fine poi rimaniamo con il cerino in mano per la trasmissione della fede, In questo contesto, e non possiamo non considerare che, pur essendoci esperienze di famiglia straordinarie, di grande carità, che sono Chiese, come quella di cui abbiamo avuto or ora testimoniata, vedo che non possiamo negare un diffuso congedo educativo da parte della famiglia con il quale dobbiamo fare i conti. È questo poi l’elemento che ci lascia il cerino in mano fondamentalmente come comunità cristiana – e la scuola – sì, che lascia il cerino in mano alle comunità cristiane e anche alle comunità civiche, diciamo così, perché un tempo erano impegnate anche esse nel processo di trasmissione della fede. Allora, pensando a questo mentre ascoltavo, mi tornava in mente Alessio Passalacqua, quel ragazzo di cui si è parlato poc’anzi. Io, ovviamente, non lo conoscevo, tanto meno conosco i suoi genitori, ma da quello che leggevo di lui, da quello che veniva letto, di quello che veniva letto dalle sue pagine e raccontato circa le scelte che i suoi genitori hanno fatto, mi viene da pensare che si tratta di un ragazzo a cui è stato permesso l’incontro libero e liberante con la forza e la bellezza del Vangelo. In una relazione educativa è stato permesso questo, tanto che i suoi genitori in una circostanza tragica ne scoprono la forza. Allora quello a cui io pensavo è che noi, come comunità educanti, come comunità che si ritrovano la responsabilità della trasmissione della fede, dobbiamo innescare una sorta di circolo, che dall’incontro con i ragazzi la cui biografia conosciamo torna alle famiglie. A partire dai ragazzi, si torna alle famiglie. Perché la vita dei ragazzi per noi è una storia sacra di per sé, nella quale lo spirito già operava prima ancora che noi e loro c’incontrassimo, lo sperimentiamo quotidianamente, loro stessi sono per noi fonte di evangelizzazione. Come i poveri, si diceva, per noi i ragazzi. E in questo processo si tratta di far entrare anche le famiglie, attraverso i ragazzi, permettendo loro di vivere un incontro libero e liberante perciò io dico che si tratta di uno stile e di un linguaggio nuovi da far entrare nel processo di trasmissione della fede, che gli permetta l’esperienza dell’incontro. Insomma, per dirla con una parola soltanto, oggi l’iniziazione cristiana tocca a noi. Il primo annuncio tocca a noi, questa è la novità.
Stefano Orlando: io volevo innanzitutto, mi sono dimenticato di farlo prima, farvi gli auguri per il vostro anniversario e augurarvi altri sessant’anni e anche di più anche perché c’è bisogno degli scout! Questo lo voglio dire, infatti sono stato scout pure io prima di essere in Sant’Egidio, ma con gli scout avevo molto a che fare, perché era pieno di gruppi scout che aiutavano. Vi voglio dire due cose: prima, guardando il video clip della vostra storia – bisogna leggersi nei tempi, gli anni ‘60-‘70 quando siete nati c’era il discorso della ribellione all’autorità, che forse un po’ ce n’è anche bisogno perché l’autoritarismo non è buono. Oggi la storia è cambiata, è che manca non l’autorità, ma mancano padri e madri e figure autorevoli, manca l’autorevolezza, e quindi credo che quello che ho ascoltato sia anche interessante, perché oggi c’è un po’ più bisogno di allora, qualcuno di questi ragazzi uniti per cui questa storia della libertà è importante, la libertà di abbattere i muri… E la seconda cosa, abbiamo parlato di tanti problemi rispetto ai ragazzi, ma volevo dire che io ultimamente vedo tanti segni positivi di speranza grandi, soprattutto nei più piccoli. Cioè c’è una generazione nuova, di 13, 14, 15enni che hanno una forza, una voglia di fare, una curiosità, una sete che sto riscoprendo e sono felice, spero che questa esperienza ce l’abbiate voi e ci dia anche, come educatori, un po’ di entusiasmo e d’incoraggiamento, non sprechiamo questo momento prezioso, anche con Papa Francesco che a noi sta mandando un sacco di ragazzi, abbiamo sentito e questo credo valga per tutti, e ci dà un po’ di speranza nel futuro.
Matteo Santini: io sottolineo velocemente una parola che don Oreste disse alle Settimane sociali di Pisa del 2007, dunque parliamo di 10 anni fa, “il cuore dei giovani batte per Cristo”! Non state sentire le ‘cassate’ che dicono, ma il cuore dei giovani batte per Cristo. Riscoprire una fiducia dei giovani da parte nostra, credo che forse sia la chiave per poter sbloccare, a partire dalla nostra vita, un processo educativo nuovo e quindi emerge nel ragionamento che voglio fare velocemente l’importanza di formare i formatori. È quanto è venuto fuori da diversi interventi, cioè scusate non formare dei formatori, ma educare degli educatori, mi correggo anche perché la formazione parla delle competenze invece l’educazione parla dell’uomo. Quindi educarci a educare, e penso che sia bello come radicarsi sempre più precisamente, coscientemente nelle proprie origini, questo è importantissimo: sapere chi siamo, perché se sappiamo chi siamo, siamo in grado anche di relazionarci con il vicino di casa, con l’associazione vicina, con anche chi incontriamo. Aggiungo un elemento, una proposta che all’interno della Consulta Nazionale di pastorale giovanile ci diciamo da un po’, ma stiamo cercare di vivere, di fare anche uno scambio di competenze, cioè il fatto che voi ci avete invitato qui è un segno profetico, bellissimo, il fatto che anche la pastorale giovanile nazionale, e anche a livello locale, l’hanno toccato con mano, questo è un segno profetico, il vento davvero sta cambiando, il cuore dei giovani batte per Cristo, ma davvero è un momento favorevole questo. L’ultimo elemento che dò è questo: la formazione, l’educazione a partire da noi e l’incontrarci per strada. E quindi anche il dialogo, che si fa azione. Misuriamoci con lo stesso metro di misura. Misuriamoci su delle sfide insieme, la strada è un elemento che ci aiuta.
Don Giuseppe D’Andrea: è la comunità che educa, la comunità educativa pastorale. Essere adulti significativi, essere testimoni della fede, non solo con le parole. Vivere l’esperienza di vita. La famiglia vista come risorsa, ciascuno di noi è chiamato a educare i giovani a vivere la famiglia come il modello di Nazareth, prima si parlava del termine famiglia allargata: ecco, noi siamo chiamati a educare, con la nostra testimonianza, i giovani che formeranno le future famiglie. La cosa bella, ripeto quello che si diceva prima, è il modello macedonia; non un frullato, non fare un frullato con un mixer, invece una bella macedonia, tutti i pezzi con la loro identità – il nostro scambiarci, il nostro contaminarci, uso questo termine in senso positivo, mettere insieme le buone prassi, quelle di agire, – diceva don Bosco – io ho sempre avuto bisogno di tutti.
Marianna Valzano: riflettendo sul tema di questa tavola rotonda vorrei aggiungere ancora una piccola cosa sulla trasmissione della fede. Prima si parlava del fatto che la relazione è molto minata, perché ci relazioniamo con degli strumenti e non tra persone; ecco, per fare un discorso di trasmissione della fede dobbiamo innanzitutto ricostruire le “relazioni”. In realtà il desiderio di relazione c’è ed è molto forte. Siamo una generazione non ancora senza speranza, parlo dei 20-25 anni, anche in noi c’è un forte desiderio di relazione, forti anche il desiderio di vivere insieme, di condividere. E questo va valorizzato. Non fermiamoci alle etichette sulla la generazione stereotipata, altrimenti rischiamo di spegnere quelle possibilità, quel processo che si sta creando. E quindi, come dicevo prima, il problema della trasmissione della fede è un problema di relazioni, di un incontro di persone che condividono un percorso di fede.
Marco Fornasiero: anch’io solo due parole, grazie per l’invito e per la condivisione; mi trovo d’accordo con quanto è stato detto prima di me e penso che sia stato utile per tutti noi incontrarsi e confrontarsi con quelle che sono le peculiarità di ogni singola realtà. Anche noi quest’anno abbiamo riflettuto un po’ sulla nostra storia, perché abbiamo avuto l’anniversario della nostra nascita. Siamo chiamati a guardare al futuro ma secondo me non si va da nessuna parte se non si conosce la propria storia. Nel senso che la storia c’è, qualcuno che l’ha fatta e l’ha fatta per quello che noi siamo oggi, quindi quello che noi facciamo oggi, lo facciamo per chi verrà dopo di noi, e questa è una responsabilità molto grande.
Pietro Antonucci: sì, mi lego anche io a questo, a don Bosco che mi piace particolarmente per una logica di passione, di cuore. C’era una frase catulliana che dice: “le cose belle che si amano non si posseggono mai interamente, semplicemente si custodiscono per tramandare”. È vero che fondamentalmente dovremo essere in grado di educare a questa cosa bella, educare a questo dono meraviglioso che è la fede e riconoscerlo come tale, amarlo come tale, e questo porterà automaticamente alla trasmissione. Il problema che abbiamo, poi l’opportunità che abbiamo, perché voglio essere positivo, perché è vero che esiste una grande necessità dei giovani, io stesso, spesso siamo più legati noi di loro, abbiamo più paure noi di quante ne abbiamo i ragazzi e quante volte nella nostra attività scout ci siamo posti duemila problemi e poi alla fine metti, accendi e loro partono come delle frecce pazzesche, quindi è vero che tante volte siamo noi il freno a questo tipo di discorso. Esiste questa curiosità, questa voglia di bellezza, questa voglia di entusiasmarsi. Ora, probabilmente dobbiamo coinvolgere di più la famiglia, forse dobbiamo iniziare l’annuncio insieme alla famiglia, possiamo essere la miccia, possiamo essere qualcosa che aiuta. Tra di noi si dice sempre ‘accendere i fuochi’, continuare questa accensione.
Michele Tridente: un’ultima sottolineatura – la dimensione associativa è in sé fortemente educativa. Già il fatto di riunirci in associazione, al di là di quello che diciamo, educa. Perché educa al dialogo, perché educa al confronto, allo stare insieme. È già l’associazione il luogo privilegiato della trasmissione della fede tra pari, nell’Azione Cattolica, tra generazioni in cui i giovani educano i ragazzi, i giovani educano i più giovani e anche viceversa come si diceva prima giustamente che i ragazzi educano. Significa credere ancora che vale la dimensione del noi, che fare le cose assieme vale di più, che non vale la logica che fa per sé fa per tre. Forse fare assieme è faticoso, fa perdere tempo, ma aiuta.
Don Stefano Caprio: Bene, ringraziamo tutti i nostri ospiti. Facciamo loro un bell’applauso; sono state una bella macedonia, una bella famiglia allargata. La presenza delle altre associazioni ai momenti di un’associazione è una cosa davvero importante. Negli ultimi anni stiamo cominciando a capire che cosa vuol dire, perché più che fare i saluti… un paio di anni fa abbiamo fatto un’Assemblea Generale in cui abbiamo fatto due ore di saluti, e fatto saltare tutti i tempi! Perché c’è la voglia di conoscersi. Oggi siete stati di aiuto, non solo di saluto, perché dobbiamo rigenerarci in un’azione comune e imparare uno dall’altro. Dunque il ‘18 se non mi sbaglio sarà il cinquantennale della comunità di Sant’Egidio, ci sono tante date nelle quali speriamo che voi ci invitiate, ma anche senza anniversari, perché forse è meglio che stiamo di più in contatto.
Contributi scritti ricevuti dalle associazioni e movimenti
“Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII” – Matteo Santini
Una breve presentazione dell’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”: è una Associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Viene fondata nel 1968 da don Oreste Benzi (Rimini) ed è impegnata da allora, concretamente e con continuità, per contrastare l’emarginazione e la povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive con loro, 24 ore su 24, facendo crescere il rapporto con Cristo perché “solo chi sa stare in ginocchio può stare in piedi accanto ai poveri” (cit. don Oreste Benzi).
La vocazione specifica della Comunità consiste nel conformare la propria vita a Gesù (Rm 8,29) povero, servo (Fil 2,6-11), sofferente, che espia il peccato del mondo (specifico interiore della vocazione) e nel condividere direttamente (per Gesù con Gesù in Gesù) la vita degli ultimi (specifico visibile) (dalla Carta di Fondazione CF p.17).
PROPOSTA EDUCATIVA APG23
Continuando ad approfondire questo obiettivo, e cioè il raccontarsi, mi soffermo qualche istante nel cercare di trasmettervi come cerchiamo di farci prossimi ai giovani, di averne cura e di condividere la nostra vita con loro.
Al centro della nostra azione pastorale per i giovani, con i giovani, c’è il vivere e far sperimentare un incontro simpatico con Cristo. Andando alla ricerca di quel Volto che parla al cuore di ognuno, un volto che trasmette la vera gioia, che non è parziale, che sa distinguere il bene dal male, volto che parla di amore e giustizia. Un volto di qualcuno che ti faccia dire: “Ma guarda un po’ che tipo questo qui! Sto con Lui, perché anch’io sento questo, magari non ce la faccio a viverlo, però sto con Lui”. Ecco la simpatia.
I percorsi educativi che proponiamo poi si articolano secondo queste tracce:
- Scoprirsi prodigio: imparare a guardarsi dentro e a meravigliarsi dei prodigi che Dio opera nella nostra vita.
- Da sé agli altri: sperimentarsi nella relazione con gli altri, educarsi all’ascolto, al vero dialogo e non negoziazione. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii Gaudium, EG 227).
- L’incontro con il povero: “Chiamati a prestare la voce ai poveri, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” (EG, 198).
- Costruire Comunità: sperimentare che da soli non ci possiamo salvare, ma ci si salva insieme. Convinti che il modo migliore di dialogare è quello di agire insieme.
- Insieme verso Gesù: un incontro che si fa strada e metodo per camminare spediti nella preghiera e nella condivisione diretta con i poveri, gli ultimi, ricercando quel Volto misericordioso che è fonte di vita.
Un altro breve racconto. Il nostro fondatore, don Oreste Benzi, alle settimane sociali di Pisa dell’ottobre 2007 diceva: “Le masse giovanili non le avremo mai più con noi, se non ci mettiamo con loro per rivoluzionare il mondo e far spazio dentro. Ma il vento è favorevole, perché il cuore dei giovani, ve lo dico – e non badate alle “cassandre” – oggi batte per Cristo. Però ci vuole chi senta quel battito, chi li organizzi e li porti avanti in una maniera meravigliosa”.
UN IMPEGNO DA CONDIVIDERE, UN IMPEGNO CONDIVISO
Questo per lasciare alcuni tratti della spiritualità che anima i nostri percorsi educativi.
E ora sottolineo alcune parole chiave che mi sembrano fondamentali nel pensarci coinvolti in un impegno da condividere, un impegno condiviso.
ASCOLTO
Parto dal sottolineare un dato relativo all’oggi. Dalle analisi del Rapporto Giovani 2016 dell’Istituto Toniolo “La condizione giovanile in Italia”, emergono dunque segnali rilevanti di quanto “le nuove generazioni siano affamate di occasioni per mettersi in campo con le proprie idee e la propria energia positiva. Dove si creano spazi di opportunità i giovani sono pronti a mettersi in gioco. Non imponendo dall’alto un’idea di futuro, ma mettendoli in condizione di realizzare ciò che è più in sintonia con le loro sensibilità e potenzialità.”
Quindi l’ascolto diventa più che mai oggi fondamentale. Un ascolto vero, che a volte può anche essere scomodo, di traverso, fastidioso. Un ascolto di una voce che è comunque “espressione del bisogno, insito in ognuno, di immergersi nella relazione profonda con il Signore” (dal Direttorio Apg23 n.60)
Un ascolto che si dilata anche alla dimensione inter-associativa, con tutto il mondo diocesano, degli istituti religiosi e degli enti e movimenti carismatici. Dobbiamo impegnarci sempre più ad essere tutti quanti quel “villaggio” che serve per educare una persona che sta cercando la sua strada nel mondo (citando un famoso proverbio africano). Un ascolto che è strumento privilegiato della cura educativa alla quale siamo tutti chiamati: per condividere un cammino educativo veramente efficace. Questa cultura della compartecipazione educativa sta crescendo anche all’interno del Tavolo di Pastorale Giovanile Nazionale italiana della CEI. Sentiamoci chiamati a coniugare sempre di più questa istanza nei territori che abitiamo quotidianamente.
INCONTRO
Le azioni di pastorale giovanile e di carattere educativo devono necessariamente nascere da un incontro.
Per portare un esempio: don Oreste Benzi ha sperimentato questa dimensione generativa dell’incontro costituendo i percorsi Apg23 a partire da relazioni precise e tangibili.
Il nostro pensarci insieme attori di percorsi educativi tenga ben presente che “la vita è l’arte dell’incontro” (Vinicius de Moraes – poeta, musicista e diplomatico brasiliano).
Inoltre, Papa Francesco continuamente ci invita ad “uscire” (vedi Papa Francesco in EG 49), ad incontrare, fiduciosi come i pastori di Betlemme all’annuncio dell’angelo: «Non temete, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). Il luogo privilegiato nel quale incontrarci ed incontrare è quindi la strada, dove mi metto in gioco con tutto me stesso. Certamente intendo la strada dura, meravigliosa ed “educante” dei sentieri montani, sotto il sole e la pioggia (il mio cuore Scout batte ancora più forte che mai). Ma anche, e soprattutto, la strada sotto casa, la strada che incontriamo appena varcata la soglia della nostra abitazione.
Auspico inoltre che luogo privilegiato d’incontro possa diventare sempre più la “parrocchia”: per un incontro vivo e profondo con i sacramenti, con una comunità eucaristica, battesimale ed educante composta dai diversi carismi che la compongono, per un incontro simpatico con Cristo, un luogo proiettato verso un “fuori le mura”, ma anche luogo attento alla memoria, una tenda di pellegrini in cerca di Dio, profetica, contemplativa e tangibile.
TRA IL DIRE E IL FARE
Le sfide educative odierne possono quindi vederci impegnati insieme a partire da una conversione personale. Siamo chiamati tutti ad essere testimoni credibili: a fondare cioè la nostra vita in un rapporto vitale e concreto con Gesù. Se partiamo da questo passo, insieme, allora tutto diventa più facile.
Dobbiamo stare attenti a non correre il rischio di limitare la nostra azione educativa ad un esercizio organizzativo di eventi, proposte e momenti. Siamo chiamati a rimettere con forza al centro del nostro agire la cura educativa. Un’ attenzione che richiede coerenza e, prima di tutto, un impegno personale. Affinché possiamo davvero passare “dall’essere facchini all’essere innamorati di Cristo” (cit. don Oreste Benzi).
Don Oreste ci ripeteva molto spesso che “ciò che fai grida molto più forte di ciò che dici”: un invito a diventare testimoni credibili di quella speranza che anima il nostro cuore ed è espressione di quell’incontro col Signore che non possiamo tacere.
CONDIVISIONE
Bellissima questa parola che avete scelto per il titolo del Convegno: “Educare, un impegno da condividere”. La condivisione è forse la parola chiave più forte su cui poterci misurare insieme.
In particolare sottolineo una lettura di questa parola alla luce della spiritualità di Apg23: oggi è importantissimo condividere la propria vita coi poveri, con gli ultimi, coi piccoli. Questa cifra è, oggi più che mai, elemento fondante dell’ esperienza di tutti i cristiani, a maggior ragione chi si sente chiamato a rispondere con forza alle odierne sfide educative.
L’incontro con il povero apre le strade alla conversione del cuore, toglie le barriere, fa emergere ciò che di buono c’è nel tuo cuore, ti fa sentire fratello il tuo vicino. “Non c’è chi salva e chi è salvato, ma ci si salva insieme” (cit. don Oreste Benzi). Una condivisione di vita che va oltre la dimensione del servizio. Il servizio richiede la prestazione, mentre la condivisione smuove l’appartenenza: l’altro ti entra nel cuore e non ne esce più.
La dimensione della condivisione con i poveri può diventare la via privilegiata del dialogo anche tra Associazioni e Movimenti. Un dialogo che non si ferma alle cattedre o alle sacrestie, ma un dialogo che si fa azione condivisa e coordinata.
EDUCAZIONE DEGLI “ADULTI”
Per concludere sottolineo l’importanza, per altro riscontrabile in diversi tratti del mio intervento, di una attenzione alla educazione e formazione dei cosiddetti “adulti”. Le sfide educative odierne sono enormi, complesse e urgenti: che il primo passo in tal senso ci veda impegnati a far sul serio col Signore, piuttosto che decentrare i problemi da noi. La vera rivoluzione parte dal nostro cuore.
Auspico che i cammini “formativi” delle nostre Associazioni, Istituti religiosi, Movimenti e realtà diocesane, possano sempre più essere permeabili l’un l’altro. Per poterci educare reciprocamente, ognuno con il suo specifico dono e sguardo, e poter allargare la nostra visione e capacità generativa di bene e di cura.
Ci ricorda Sant’Ambrogio: “La luna narra il mistero di Cristo”. Noi siamo quella luna che le nuove generazioni guardano con interesse e speranza. A noi la responsabilità di far risplendere la luce che non è nostra, ma di un Gesù che ci toglie dalle tenebre del buio. Il rischio altrimenti è di portare noi stessi e non quella luce e quel profumo che davvero sono fonte di bene e calore. Questa capacità di “riflettere” va educata e formata: che bello sarà quando potremo avere momenti condivisi in cui ci educheremo vicendevolmente a questa tensione del cuore e della mente.
Questa dimensione è la più importante delle sinergie attuabili tra soggetti educativi. Non possiamo pensarci come isole, ma come rete tesa a condividere lo stesso obiettivo: “fare di Cristo il cuore del mondo” (vedi “Lettera ai fedeli laici” della CEI, in preparazione al IV Convegno ecclesiale di Verona 2006).
CONCLUSIONE
Ringraziando nuovamente dell’invito che ci avete rivolto, prendiamo l’impegno, come Apg23, di invitarvi ai nostri Convegni e momenti formativi per proseguire questo cammino di conoscenza e condivisione.
“…Ma il vento è favorevole, perché il cuore dei giovani, ve lo dico – e non badate alle “cassandre” – oggi batte per Cristo. Però ci vuole chi senta quel battito, chi li organizzi e li porti avanti in maniera meravigliosa” (don Oreste Benzi alle “Settimane sociali” – Pisa 2007)
Vi affido a Maria, Madre nostra e fiducia nostra Buona strada!
L’EDUCAZIONE ALLA (E NELLA) FEDE DEI GIOVANI – Giovanni D’Andrea – Coordinatore nazionale Parrocchie-Oratori salesiani
Per la loro crescita personale in relazione con la Famiglia
Come ci insegna Don Bosco
- Don Bosco: “Questa società in principio era un semplice catechismo”.
Il giovane prete Giovanni Bosco, durante la sua permanenza al Convitto Ecclesiastico di Torino (1841-1844), fa l’incontro con la “miseria” delle carceri sotto la guida di D. Cafasso che proprio nelle carceri esercitava il suo ministero pastorale. Alla vista di tanti giovani detenuti che si abbruttivano in quei luoghi dove venivano reclusi per questioni di ordine pubblico, D. Bosco inizia la sua riflessione che lo condurrà poi ad una chiara scelta di vita. Nelle Memorie Biografiche così è descritto questo momento di particolare discernimento: “D. Bosco andava dicendo: Chi sa, se questi giovanetti avessero avuto forse un amico, che si fosse presa amorevole cura di loro, li avesse assistiti ed istruiti nella religione nei giorni di festa, chi sa se non si sarebbero tenuti lontani dal mal fare e dalla rovina, e se non avrebbero evitato di venire e di ritornare in questi luoghi di pena? Certo che almeno il numero di questi piccoli prigionieri sarebbe grandemente diminuito. Non sarebbe ella (questa) cosa della più grande importanza per la religione e per la civile società il tentarne la prova per l’avvenire a vantaggio di centinaia e migliaia di altri fanciulli? E pregava il Signore che gli volesse aprire la via per dedicarsi a quest’opera di salvamento per la gioventù. Ne comunicò il pensiero a D. Cafasso, dal quale ebbe approvazione ed incoraggiamento, e coi suo consiglio e co’ suoi lumi prese tosto a studiare il modo di effettuarlo, abbandonando il buon esito alla divina Provvidenza, senza di cui tornano vani tutti gli sforzi dell’uomo”. (MB II, 61-62)
“Li avesse assistiti e istruiti nella religione nei giorni di festa”, come abbiamo ascoltato è questa una delle motivazioni che spinge D. Bosco a prendersi “amorevole cura” dei giovani specialmente i “più poveri, abbandonati e pericolanti” come li definisce lui stesso. Questa attenzione è confermata e continuata da noi Salesiani tanto da essere sancito anche da un articolo delle nostre Costituzioni che rappresentano per noi come per ogni Congregazione religioso “La regola di vita”, il vangelo applicato allo specifico di ogni carisma. Attingendo sempre alla Costituzioni ci sono alcuni articoli che fondano ed orientano la nostra azione pastorale ed educativa riguardo l’educazione alla Fede. La nostra attenzione prioritaria è “ai giovani” tra questi destano un interesse particolare i più poveri, quindi tutti i giovani ma un “occhio speciale” i più poveri, “gli ultimi”. Una povertà che non è da considerare solo nell’accezione economica, ma anche sociale, culturale, affettivo, morale, spirituale, così come è definito nell’articolo 1 dei Regolamenti che formano un tutt’uno con le Costituzioni pocanzi citate. Per meglio comprendere quanto detto cito questi articoli, o meglio alcune parti che mi sembrano più illuminanti. Art. 26: “Con D. Bosco riaffermiamo la preferenza per la gioventù povera abbandonata, pericolante, che ha maggior bisogno di essere amata ed evangelizzata”. Art. 31: “Educhiamo ed evangelizziamo secondo un progetto di promozione integrale dell’uomo orientato a Cristo uomo perfetto. Fedeli alle intenzioni del Fondatore, miriamo a formare “onesti cittadini e buoni cristiani”. Art. 34: “Questa società nel suo principio era un semplice catechismo. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione. Come D. Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a essere educatori alla fede. […] Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto affinché, scoprendo in lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi”.
Per quanto espresso in quest’ultima parte dell’articolo è pienamente in linea col tema di questa bella Tavola rotonda che mette a confronto diverse realtà “educative pastorali” che negli anni hanno accompagnato tanti giovani nel loro percorso di fede. Mi permetto di sottolineare quanto dice l’articolo riguardo l’impegno che ciascuno di noi ha, un impegno che non può essere delegato ad altri se vogliamo vivere coerentemente il nostro battesimo (l’essere Re, Profeti e Sacerdoti), il nostro essere cristiani. “siamo chiamati tutti e in ogni occasione a essere educatori alla fede”. Commentando brevemente questa frase, si evince una “chiamata”, che è per tutti e in ogni occasione, non c’è un tempo in cui si va in vacanza nell’educare alla fede. Ci possono essere tempi più propizi ed opportuni, ma anche tempi cosiddetti “informali” nel quale si continua a educare non solo con le belle parole ma con la coerenza del vissuto di ogni giorno. Educatori alla fede, questo il compito di ogni cristiano, per noi salesiani, consacrati e laici, questo essere educatori assume una coloritura particolare secondo il carisma del nostro fondatore D. Bosco. Lo facciamo cioè applicando il Sistema Preventivo che “associa in un’unica esperienza di vita educatori e giovani in un clima di famiglia, di fiducia e di dialogo” (Cost. 38).
- “Educhiamo evangelizzando ed evangelizzando educhiamo” nei diversi ambienti ed attività
L’azione educativa-pastorale che trae origine e si alimenta con quanto detto al punto precedente si realizza in diverse opere/ “ambienti” che principalmente sono: Oratorio-Centri Giovanili, Parrocchie; Scuole, Centri di Formazione Professionale; Opere e servizi per giovani a rischio. Nel recente Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile dei Salesiani (2014) si fa riferimento anche ad altre “opere e servizi” tra questi i servizi di animazione del Tempo Libero. La realtà salesiana italiana da quasi 50 anni ha dato vita a forme associative civilmente costituite che rispondono all’animazione di alcuni ambiti di interesse dei giovani come il turismo e la salvaguardia del creato (TGS), l’ambito della cultura attraverso il giusto utilizzo dei media, cinema, teatro, musica (CGS).
In tutti questi “ambienti” si realizza il cammino di educazione alla Fede con diverse modalità e “carichi di lavoro” a seconda del “livello” a cui si trova il ragazzo/giovane. Quello che riporto di seguito è una sorta di sunto di quanto espresso nel Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile dei Salesiani e che riguarda i percorsi di educazione alla fede.
L’Oratorio-Centro Giovanile offre una proposta che è finalizzata alla persona del giovane, con una visione cristiana della vita a cui tende. E’ una proposta cristiana di educazione, il cui nucleo attivo è la Spiritualità Giovanile Salesiana. Attingendo al già citato Quadro di Riferimento si può dire che la fede in Gesù Cristo ci apre ad una visione cristiana della vita, ci racconta la forma di vita che deve animare l’Oratorio-Centro Giovanile. In questo ambiente, i giovani potranno scoprire gradualmente un spazio ricco di valori evangelici che li guida all’esperienza della fede nella vita pratica di tutti i giorni. Si offrono itinerari diversi a seconda dell’età del destinatario, percorsi graduale di educazione e personalizzazione della fede, celebrazioni festose della fede e dei sacramenti, l’educazione all’impegno cristiano nel proprio ambiente secondo la propria vocazione, e la maturazione del proprio progetto di vita nella Chiesa e nella società.
L’Oratorio-Centro Giovanile va anche considerato come un’opera di mediazione, di “frontiera” tra Chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili, che assicura la ricerca e il contatto con i giovani. Come un lavoro di confine tra il campo religioso e quello civile, tra il mondo secolare e quello ecclesiastico, offre risposte educative ed evangeliche alle sfide ed alle emergenze più sentite, in particolare a quelle che si riferiscono agli ultimi. È un ambiente salesiano di aggregazione giovanile con identità cristiana, in cui gli spazi sono aperti a tutti coloro che vogliono entrarvi.
L’Oratorio-Centro Giovanile è un luogo privilegiato per gli animatori. In esso vivono la fede personalmente e comunitariamente, con atteggiamenti di apertura al servizio dei più bisognosi. Anche ai bambini e ai giovani è data la stessa opportunità: con il loro esempio e con la loro testimonianza interpellano le famiglie e giovani lontani dalla vita della Chiesa.
La parrocchia affidata alla comunità salesiana offre a tutti una proposta sistematica di evangelizzazione e di educazione alla fede. Questo può apparire scontato e comune a tutte le parrocchie della chiesa cattolica, quella che caratterizza la parrocchia “affidata” ai salesiani è la sua predilezione verso il mondo giovanile e le classi popolari, questo lo si può riscontrare dall’ubicazione territoriale delle parrocchie salesiane. Promuove il primo annuncio per coloro che sono lontani, e offre percorsi continui e graduali di educazione alla fede, soprattutto per le famiglie. La parrocchia è una comunità dove si possono sperimentare i valori più caratteristici della spiritualità salesiana: la gioia della vita cristiana quotidiana, la speranza che scorge il positivo nelle persone e nelle situazioni e promuove la comunione.
È una comunità missionaria ed evangelizzatrice, la Parola di Dio e la liturgia sostengono la vita di fede dei suoi membri, e promuove la comunicazione dell’esperienza cristiana. La comunità parrocchiale mette al centro della vita comunitaria l’Eucaristia, e celebra in maniera significativa i sacramenti della vita cristiana, in particolare il sacramento della Riconciliazione. alimenta la devozione a Maria Ausiliatrice. La parrocchia è il volto della Chiesa. È, nel territorio, il punto di riferimento che rende visibile la Chiesa e socialmente inserita nella vita quotidiana. In essa i cristiani vivono la fede, la speranza e la carità, alimentati dalla Parola di Dio e dalla celebrazione dei sacramenti. La parrocchia è “la Chiesa che vive tra le case dei suoi figli e figlie” (Christifideles Laici 26). Promuovendo la crescita di una fede attiva, la parrocchia educa alla dimensione sociale della carità per costruire una cultura della solidarietà. Così, riconosce e incoraggia l’impegno dei membri della comunità parrocchiale coinvolti nell’azione sociale e nella carità, nella vita civile e politica. Sostiene la promozione, la formazione e l’accompagnamento del volontariato solidale e missionario.
La scuola e i Centri di Formazione Professionale (CFP) sono due strutture di formazione sistematica con caratteristiche proprie, ma sempre in profondo rapporto. Non c’è vera scuola salesiana che non avvia al lavoro, né c’è vero CFP salesiano che non tenga conto dell’elaborazione sistematica della cultura. L’educatore ha il compito e l’arte di pensare al contenuto del suo insegnamento dal punto di vista dello sviluppo educativo integrale dei giovani, al servizio della loro crescita personale. In questi due ambienti Si sottolinea l’urgenza attuale dell’impegno evangelizzatore mettendo a frutto il patrimonio pedagogico ereditato da San Giovanni Bosco e accresciuto dalla tradizione successiva. E’ necessario che ogni istituzione educativa offra una proposta educativa pastorale, rimanendo aperta ai valori condivisi nei contesti, che promuova l’apertura e l’approfondimento dell’esperienza religiosa e trascendente, e ripensa il “messaggio evangelico”, accettando il confronto vitale con il mondo dei linguaggi e con gli interrogativi della cultura. Rifacendosi a questi principi imposta l’intera attività alla luce della concezione cristiana della realtà, di cui Cristo è il centro. Orienta i contenuti culturali e la metodologia educativa secondo una visione di umanità, di mondo, di storia ispirati al Vangelo. Favorisce l’identità cattolica attraverso la testimonianza degli educatori e la costituzione di una comunità di credenti animatrice del processo di evangelizzazione.
Le Opere e servizi per giovani a rischio. Sono da annoverare tra queste le “Case-famiglia”, I Centri Diurni, Le Comunità per persone soggette a dipendenze. Sono la risposta alla constatazione della crescente esclusione sociale. Si riconosce la necessità di garantire la pratica del sistema educativo di Don Bosco, perché i giovani superino il disagio e l’emarginazione, assimilino le prospettive di un’educazione etica e di promozione della persona, nell’impegno socio-politico e nella cittadinanza attiva, curino l’educazione e la difesa dei diritti dei minori, la lotta contro l’ingiustizia e la costruzione della pace. In questa particolare tipologia di opera che risponde al disagio conclamato, a volte, gli interventi rispondono, senza indugi, a necessità primarie di sopravvivenza (cibo, acqua, cure mediche, rifugio in un ambiente familiare) perché i giovani possano crescere in autonomia e superino condizionamenti di dipendenza. Raggiunta questa tappa si tende ad assicurare loro tutte le altre risorse di cui hanno bisogno per vivere in maniera degna e sicura. La formula “onesti cittadini e buoni cristiani” di Don Bosco vuol dire rispondere a tutti i bisogni dei giovani “abbandonati” in prospettiva umanizzante. La testimonianza degli educatori e della CEP, l’ambiente di accoglienza e di famiglia, la difesa e la promozione della dignità personale e dei suoi valori, sono una prima forma di annuncio ed una prima realizzazione della salvezza di Cristo: che è liberazione e pienezza di vita.
Si tratta di un’azione educativa che condivide con i giovani una proposta di crescita interiore, con speciale attenzione alla dimensione religiosa della persona, fattore fondamentale di umanizzazione e prevenzione, sostegno solido di speranza per i giovani che patiscono gravemente le conseguenze drammatiche della povertà e dell’esclusione sociale. L’evangelizzare per noi comporta vicinanza e condivisione, umanizzazione e proposta. È un processo, ed anche quando esso non arriva alla proposta cristiana per tutti con la stessa intensità, è tuttavia una prima, autentica forma di evangelizzazione perché, come Gesù, si immerge nella realtà per umanizzarla e chiamare tutti alla sua sequela. Ogni comunità educativa deve proporre ai giovani esperienze e percorsi che risveglino in loro la dimensione della vita spirituale e li aiutino a scoprire Gesù Cristo come il loro Salvatore. Questa proposta di evangelizzazione deve inserirsi pienamente nel processo educativo con itinerari pedagogici semplici, personalizzati, strettamente legati alla vita quotidiana e graduali.
Bisogna proteggere e sviluppare il risveglio religioso con pazienza e perseveranza, facendo emergere il positivo che è nei giovani, la coscienza della loro dignità, la loro volontà di rifarsi. Le forme specifiche di sostegno e di azione, che realizziamo con i giovani, sono le seguenti: facilitare l’affiorare di domande sul senso della vita (che senso ha la mia vita? Che tipo di persona voglio essere?); essere presenti nelle celebrazioni e negli eventi importanti della loro vita familiare, sociale e religiosa; offrire valori che orientino la ricerca religiosa e favoriscano la disponibilità alla fede; presentare l’umanesimo cristiano del Vangelo di Gesù come Buona Notizia; invitare a sentirsi accolti dalla comunità cristiana e membri di essa; proporre esperienze religiose semplici e di qualità, e l’assunzione di impegni progressivi.
In tutto questo va considerato il sempre più crescente confronto e dialogo interreligioso. Le attività e gli ambienti anzi descritti sono vissuti anche da ragazzi e giovani che professano o appartengono ad altre religioni. Non è nostra intenzione fare delle “crociate di conversione al cristianesimo” ma ribadiamo la nostra fede in Cristo. Senza scadere nel “buonismo” ci piace un confronto schietto e sincero con le altre “fedi religiose” che a mio avviso può rinforzare e far emergere la nostra identità cristiana. Il rispetto, e non la tolleranza, è una regola da tenere sempre presente. Il XIII Sinodo dei Vescovi (Ottobre 2012) che aveva per argomento la Nuova Evangelizzazione ha affermato come “E’ un diritto inalienabile di ogni persona, qualunque sia la sua religione o la sua assenza di religione, di essere in grado di conoscere Gesù Cristo e il Vangelo”. Dalle propositiones Papa Francesco ha poi tratto materiale ed ispirazione per l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium.
- Una Comunità che educa: La CEP (Comunità Educativa Pastorale)
L’Educazione alla fede non è una “missione” di qualche “lupo solitario” ma è espressione di una comunità cristiana che svolge questa “trasmissione” da una generazione all’altra. Nel nostro sistema educativa l’abbiamo codificata con una sigla CEP che sta ad indicare la Comunità Educativa Pastorale. Sinteticamente possiamo definirla come la forma salesiana d’animazione di ogni realtà educativa intesa alla realizzazione della missione di Don Bosco. È l’insieme di persone (giovani e adulti, genitori ed educatori, religiosi e laici, rappresentanti di altre istituzioni ecclesiali e civili e appartenenti anche ad altre religioni, uomini e donne di buona volontà) che operano insieme per l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani, specialmente i più poveri secondo lo stile di Don Bosco. Tale insieme è a cerchi concentrici, in base al grado di condivisione delle responsabilità dei singoli nella missione. E’ qui che si prova a coinvolgere la risorsa fondamentale della famiglia. La famiglia intesa come soggetto attivo, responsabile primo dell’educazione alla fede dei figli, una risorsa da valorizzare sempre più. Una considerazione che ha trovato conferma nella celebrazione di due sinodi e sulla recente esortazione apostolica Amoris Laetitia. La Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori “Il Laboratorio dei talenti” al n. 19 parla di alleanze feconde e diversificate, la “prima e fondamentale alleanza educativa è certamente quella con la famiglia”.
La CEP è dunque questo “insieme” di persone che agiscono in una doppia funzione che noi salesiani leggiamo come facce della stessa moneta educazione ed evangelizzazione, onesti cittadini buoni cristiani, una faccia disgiunta dall’altra fa perdere valore alla moneta. Ognuno nella CEP vive i suo ruolo, svolge un suo compito, come parti di un ingranaggio serve una buona lubrificazione questo è compito di chi anima la CEP, il cosiddetto “nucleo animatore” composto dalla comunità religiosa, garante del carisma e dai responsabili di servizi ed attività, a loro il compito di convocare, motivare, coinvolgere tutti coloro che si interessano di una opera, per formare con essi la comunità educativa e realizzare un progetto di evangelizzazione ed educazione dei giovani. Nello svolgere questo servizio educativo-pastorale applichiamo quello che D. Bosco ci ha tramandato come metodo: il Sistema Preventivo. Celebre è il famoso trinomio che accompagna la definizione kerigmatica di Sistema Preventivo: Religione, Ragione Amorevolezza. Fra i tre, il primato spetta a questa ultima che include la ragione ed in quanto carità cristiana la religione. Amare è la prima ed ultima parola della metodologia di Don Bosco, è lui stesso che lo afferma nel presentare il Sistema Preventivo: “La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di San Paolo che dice: – Charitas benigna est, patiens est, omnia sufferit, omnia sperat, omnia sustinet: la carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.
Credo che ciascuno di noi è chiamato, col suo stile e col carisma nel quale si ritrova, ad essere un valido “trasmettitore” di fede, un buon evangelizzatore. A motivo di questo mi piace concludere questo mio contributo con il n. 262 della Evangelii Gaudium che ci delinea chi sono gli evangelizzatori con Spirito: “Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, e mi rallegra immensamente che si moltiplichino in tutte le istituzioni ecclesiali i gruppi di preghiera, di intercessione, di lettura orante della Parola, le adorazioni perpetue dell’Eucaristia. Nello stesso tempo «si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione». C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità”.
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